il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2015
Due anni fa Renzi vinceva le primarie del Pd. Sembra passato un secolo, scrive Travaglio
Pare un secolo, e invece sono trascorsi appena due anni dall’8 dicembre 2013, quando Matteo Renzi vinse le primarie del Pd e ne divenne il segretario, per poi dare in due mesi la scalata a Palazzo Chigi. Lo ricordiamo oggi e non il prossimo 8 dicembre perché quel giorno si aprirà il Giubileo (che, lo rammentiamo soprattutto a lui, il Papa ha fissato in quella data per celebrare non i suoi due anni di segreteria, ma i 2 mila e più anni dell’Immacolata Concezione di Maria Vergine). Il bilancio completo del biennio lo tracceremo nei prossimi giorni con i nostri commentatori. Ma ci sono quattro notizie fresche e sparse che riassumono meglio di qualunque analisi i pro e i contro del renzismo. Le prime due, importantissime, sono la scelta del governo Renzi di non partecipare ai bombardamenti sullo Stato Islamico e gli ultimi dati su Pil e occupazione. Le altre due, apparentemente secondarie, sono l’assoluzione del comico Luca Laurenti per evasione fiscale e la presentazione del libro di Vespa alla presenza del premier.
In politica estera il governo Renzi aveva finora mostrato dilettantismo e improvvisazione. L’Italia, a livello internazionale, era rimasta il solito peso piuma: zero risultati nello strombazzatissimo semestre di presidenza Ue; vuota propaganda sull’inconsistente Mogherini Miss Pesc; poche idee ma confuse sulla Libia dopo il disastro della guerra a Gheddafi voluta da Usa e Francia e avallata da Napolitano e B.; baggianate assortite sull’immigrazione (affondare i barconi bombardandoli dall’alto o bucandoli da sotto); tutto e il contrario di tutto sul golpettino della troika contro la Grecia di Tsipras; esclusione dell’Italia da tutti i tavoli che contano in un’Europa sempre più franco-tedesca; servilismo verso gli Usa anche oltre le aspettative di Obama, col rinvio del ritiro delle truppe dall’Afghanistan e i miliardi buttati per comprare gli F-35; affari ambigui con l’Arabia Saudita e gli emirati del Golfo, noti finanziatori dell’estremismo wahabita. Poi però, dopo la strage di Parigi, Renzi ha iniziato a dire e soprattutto a fare cose sensate. Non s’è lasciato trascinare dalla fregola guerrafondaia di chi bombarda l’Isis tanto per dire che fa qualcosa, e ha chiesto alleati credibili e obiettivi chiari. Può darsi che l’abbia fatto perché non sa che pesci pigliare, perché siamo sempre gli italiani dell’“armiamoci e partite”, o perché il peso militare di due-tre Tornado italiani sarebbe irrilevante (specie a fronte della prevedibile rappresaglia terroristica nell’anno del Giubileo).
Ma non importa: il risultato è che l’Italia non s’intruppa in un’Armata Brancaleone di cui fanno parte la Turchia e la Russia (l’una contro l’altra armate), la Siria del feroce Assad e il suo alleato Iran ancora tutto da capire, gli Usa e l’Arabia Saudita che foraggia i nemici dell’Occidente, oltre a Francia, Inghilterra, in parte la Germania e il regime fantoccio di Baghdad. Una coalizione insensata che fa la guerra per non vincerla, anche perché ciascun “alleato” ha un’idea diversa sul dopoguerra: sul futuro della Siria, dell’Iraq, dei curdi e dei sunniti umiliati dalla guerra a Saddam. Perciò Renzi fa benissimo a tenerne lontano l’Italia.
I dati sull’economia dimostrano purtroppo ciò che sosteniamo da sempre, passando per gufi: e cioè che il governo, nell’ansia di compiacere Confindustria, il sistema bancario e – ma solo fino a un certo punto – le autorità europee, ha clamorosamente sbagliato l’agenda delle priorità. Ha gettato 10 miliardi all’anno per i famosi 80 euro che non hanno smosso i consumi. Ne ha buttati altri 3 (regalandoli alle imprese) per gli incentivi del Jobs Act che hanno prodotto in un anno la miseria di 2 mila nuovi posti di lavoro stabili (costati 1,5 milioni l’uno). E ora se ne fuma altri 4 per levare le tasse sulla prima casa, senza distinzione fra ricchi e poveri. La spending review doveva fruttare 10 miliardi e si è ridotta al lumicino, a parte il taglio dell’ennesimo addetto alla spending review, Roberto Perotti, messo in fuga come i commissari Giarda, Bondi e Cottarelli. Le lingue di regime che da mesi turibolano mirabolanti trionfi sul Pil e sull’occupazione, manco fosse tornato il boom anni 60, dovrebbero andare a nascondersi.
Ieri è stato assolto Luca Laurenti dall’accusa di evasione fiscale per l’omesso versamento di 237 mila euro di Iva. E non perché non abbia commesso il fatto, bensì perché “il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. Cioè è stato depenalizzato dal decreto attuativo della legge delega fiscale firmato da Renzi e Padoan, con il colpo di spugna della nuova “soglia di punibilità” alzata da 50 mila a 250 mila euro: quintuplicata. E Laurenti è solo un caso su migliaia di evasori assolti per aver commesso il fatto. Che nel paese detentore del record mondiale di evasione si possano fregare impunemente 250 mila euro all’anno all’erario è una vergogna che neppure B. aveva osato e che dovrebbe suscitare l’indignazione di tutte le persone oneste. Possibile che il presidente Mattarella, fra un monito e l’altro contro la corruzione e l’evasione, non trovi mai le parole per dirlo?
L’altroieri Renzi ha presentato il libro di Bruno Vespa, nel solco di una lunga tradizione che va da D’Alema a Berlusconi. Nulla di grave, per carità. Ma siccome, almeno finora, Vespa non è un’alta carica istituzionale e non fa neppure capoluogo, il fatto che Renzi non abbia la forza di dirgli di no (come Prodi ed Enrico Letta) la dice lunga sulla truffa della rottamazione. Due anni fa avevamo capito, e sperato, che Renzi volesse archiviare l’Ancien Régime. Errore: voleva solo sedercisi a tavola con i suoi amichetti per fare (Isis a parte) le stesse cose.