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 2015  dicembre 03 Giovedì calendario

Il film su Bergoglio non è poi così buono con il futuro Papa

La scena più bella di Chiamatemi Francesco è questa, e ve la devo raccontare: siamo nell’Argentina feroce del 1978, in piena dittatura, nel tempo dei desaparecidos e delle esecuzioni sommarie nelle strade di Buenos Aires, dei corpi inermi gettati nell’Atlantico. Per ordine dei suoi superiori, che scelgono di convivere con il regime di Videla, il futuro Papa è costretto a togliere la “protezione” dei gesuiti a due sacerdoti che predicano il Vangelo dei poveri nelle favelas. I due sacerdoti, dopo il drammatico dialogo in cui Jorge da loro la notizia, vengono rapiti dai militari e torturati nella famigerata segreta di Garage Olimpo. Saranno liberati solo dopo l’intercessione del giovane Bergoglio che è combattuto tra i suoi affetti e la sua umanità, da un lato, e la “ragion di Stato” della Chiesa Argentina, dall’altro.
E qui si arriva al dialogo più duro. Una battagliera suora che dopo la liberazione dei sacerdoti ospita i due superstiti va da Bergoglio a domandare per loro due salvacondotti: «Prima devo vederli!», grida il priore gesuita. «Non puó padre», risponde la suora in un crescendo drammatico. «Devo vederli!», ripete Bergoglio. «Non vogliono!» risponde lei: «Lei gli hai tolto la protezione dell’ordine!». Campo largo sul cortile del collegio, la scena finisce con il futuro Papa che, senza nessun accenno di santità, se ne va urlando e inveendo contro la sorella.
LA ZONA GRIGIA
Prendo questa scena a modello come il paradigma di tutto un film sorprendente, dove mancano del tutto i toni del racconto edificante. Non ci sono buoni e cattivi tagliati con l’accetta, non c’è il male contro il bene, il peccato contro l’innocenza, nell’Argentina del terrore: le scelte decisive sono tutte drammatiche e laceranti, e tutti abitano nella “zona grigia” dove le vittime si confondono con i carnefici, a partire dal futuro Papa. La chiesa abbandona i due sacerdoti, Bergoglio non è d’accordo ma è costretto suo malgrado ad adeguarsi, per tutelare la propria comunità. Bergoglio riesce a salvare i due prigionieri ma solo pagando il prezzo altissimo di una messa lunare e algida (altra scena asciutta, cruda e bellissima) celebrata alla presenza del dittatore e dei suoi cari. Una complessità di racconto, nella rappresentazione dei rapporti di forza indotti dal potere autoritario, che sarebbe di sicuro piaciuta a Primo Levi, lo scrittore che ha inventato la categoria della “zona grigia” proprio per raccontare la perdita di qualsiasi innocenza indotta dall’universo concentrazionario del lager.
Ma Chiamatemi Francesco è sorprendente anche per un altro motivo, che riguarda sia i suoi autori che il Santo Padre. Confesso: avendo stima di Daniele Luchetti, sono andato a vedere il suo film sul giovane Papa pensando: sarà apologetico, inevitabilmente, ma di sicuro fatto bene. E invece, fin dai primi minuti, sono rimasto stupito dell’opposto: il suo “Francesco” è un film complesso, pieno di sfumature, che nulla a che vedere con le vite dei santi, un film anti-agiografico, un film sorprendente, perché non solo è stato in qualche modo “autorizzato” dalla Santa sede, ma proiettato proprio ieri in Vaticano davanti a una platea sterminata convocata ufficialmente dalla segreteria di Stato del Pontefice, con l’ormai immancabile fusione di alto e basso, il popolo di Roma che siede in platea vicino ai più alti prelati e gerarchie. Ecco perché la cosa più sorprendente di questo racconto (che sarà bello, a questo punto, valutare anche nella versione integrale da quattro ore che sarà trasmessa in televisione tra un anno) è proprio la figura del Papa, la narrazione della sua formazione che Luchetti e il produttore Pietro Valsecchi hanno immaginato e messo in scena, ma che lui stesso ha acconsentito e sottoscritto.
I divulgatori dell’interpretazione più semplicistica di questo pontificato, infatti, immaginavano questo film come una favoletta funzionale, edificante e calligrafica, la storia di un futuro Papa che inizia la sua carriera di santi benedicendo storpi, bambini e poverelli. E invece questo racconto, anche in una chiave di grande romanzo, è accessibile a chiunque, ma ci racconta molto di più: è come se il giovane sacerdote di Chiamatemi Francesco, l’intellettuale che media, che fa compromessi, che soffre la contraddizione di avere alle sue spalle Cristo e davanti a sé la forza del potere, diventasse un calco ribaltato del Bergoglio di oggi. Come se diventasse l’unico modo per spiegarlo. A partire dal dialogo con gli amici peronisti nel pub, prima della conversione: «Come potrà uno come te essere un rappresentante della Chiesa-gorilla?». Vuole dire, con un nomignolo dispregiativo argentino: come potrai sopravvivere nella Chiesa conservatrice, nella Chiesa che contribuisce ad abbattere il populismo di Perón, nella Chiesa collaborazionista? Il giovane Bergoglio risponde con una spruzzata di selz in faccia all’amico. Goliardia, certo, ma anche la passione di chi non pensa di doversi giustificare.
STUDIO E FATICA
La risposta che questo film ci fornisce all’interrogativo su come nasce un Papa è spiazzante, ed è questa: è il gesuita che dialoga col potere, il presupposto del Papa dei poveri. Il prelato giovane che si china senza spezzarsi, ciò che permette al Papa anziano di restare intransigente nel terzo millennio ci sono gli esercizi spirituali, dietro la spontaneità, ci sono lo studio e la fatica intellettuale di Ignazio da Loyola. Dice Luchetti: «Conducendo la nostra inchiesta sulla vita di Francesco prima di diventare Pontefice ho incontrato le luci e le ombre. E ho capito – racconta il regista – che le ombre, se raccontate, potevano diventare ricchezza: questo Papa non è grande perché assomiglia a un santo, ma è grande perché è stato ed è un uomo». Forse è per questo che la grandezza crepuscolare di Benedetto XVI è stata raccontata da un laico di sinistra come Nanni Moretti, e adesso la grandezza problematica di Francesco viene raccontata da un altro laico di sinistra come Luchetti. Due amici, non credenti, sedotti dalla grandezza drammatica degli uomini di fede nel tempo della crisi. «Lei crede?», hanno chiesto al regista. E lui, con grande umiltà: «Ho imparato a credere agli uomini che credono».
Con Chiamtemi Francesco abbiamo scoperto perché la forza comunicativa di Bergoglio e il suo neo-francescanesimo si fondano sulla forza simbolica del Collegio Romano, la fortezza da cui è partita tutta la storia dei gesuiti. Dentro il dramma di chi nel terrore della repressione deve scegliere tra due errori, tra la vita e la morte del suo maestro spirituale, scopriamo che solo dentro il peccato c’è la premonizione di un nuovo Papa che sa combattere il peccato.