il Giornale, 3 dicembre 2015
Quando Krusciov cancellò un lago da un giorno all’altro per farne una piantagione di cotone. Viaggio in Uzbekistan
C’è un unico albergo a Moynaq. Non ha acqua corrente, le finestre sono bucate, il letto cigola, la sola luce della stanza è una lampadina che penzola sulla parete scrostata. Il bagno è uno per tutti: clienti e padroni. A colazione possono offrirti un tè, del pane e dei biscotti, ma solo se insisti. E lo fanno con tristezza, quasi gli portassi via qualcosa senza voler pagare. Non ha neanche un’insegna questo albergo. Chiedi in paese e te lo indicano: «Di là, sulla destra». Nessuno arriva a Moynaq per starci: a che serve restare? Non c’è neanche un posto dove mangiare. Qui si viene per dare un’occhiata alla dozzina di navi arrugginite arenate nella sabbia: qualcuno con occhio lungimirante per la cartolina a effetto deve averle raccolte e messe lì a bella posta. Si contempla il monumento solitario con scolpiti i contorni del fu lago d’Aral 450 chilometri per 230 di lunghezza, 70mila chilometri quadrati, una profondità massima di 54, 55 metri – e si va via. E di certo vorrebbero andar via anche gli abitanti di questa cittadina che un tempo aveva quasi 40mila residenti, era un porto florido il più grande della sponda Sud, attirava tanti turisti in estate e poteva vantare una grande marineria con oltre duecento pescherecci e un paio di industrie che lavoravano il pesce.
I vacanzieri russi chiamavano l’Aral il «mare azzurro azzurro» perché le sue acque salate erano limpide come il vetro e ci potevi vedere attraverso per decine di metri.Le persone che incontri per strada sembrano arenate come quelle navi: chi ha potuto se ne è andato anni fa. Chi non ha potuto è rimasto in questo avamposto della decomposizione. Sembra un monumento contemporaneo, un’installazione vivente che celebra il disastro tecnico prima che politico dell’Unione Sovietica. Per strada le donne spazzano sabbia e polvere, come se ripulire potesse cambiare qualcosa. Ma forse, invece, è per far ordine in tutto questo disordine. Gli uomini stanno a guardare chi passa, ma chi dovrebbe passare per una strada che non porta da nessuna parte? E intanto i bambini rincorrono cani e gatti tra le case di questa città fantasma.
Come muore un lago? Non è certo una domanda che uno si fa abitualmente. Eppure qui, a Moynaq, nella repubblica autonoma del Karakalpakstan, appendice occidentale dell’Uzbekistan, hai l’impressione che questa sia una domanda che tanti si sono posti ben più di una volta nella vita. Se si potesse chiedere in giro a chi ha più di 35 anni, tutti avrebbero una mezza idea e qualche spiegazione. Ma non si possono fare domande. Appena tiri fuori la macchina fotografica in mezzo al paese, accanto alla stazione dei bus, si accosta una macchina con due figuri che ci mettono poco a farti capire che no, meglio non fotografare. Meglio non chiedere. Chi è più giovane invece l’acqua non l’ha mai vista, ha sentito solo racconti. Dall’inizio degli anni Ottanta Moynaq non è più una città rivierasca. Dalla scarpata di quello che una volta era il lungolago non si vede nulla di azzurro. Solo sabbia e polvere. Il lago d’Aral, un tempo quarto specchio d’acqua più grande del mondo, oggi è un deserto di polvere salata.
Per spiegare il perché del disastro dell’Aral torna utile il verso di un poeta uzbeko senza nome, che viene citato da Colin Thubron in uno dei suoi libri sull’Asia Centrale. «Quando Dio ci amava ci donò l’Amur Darja. Quando smise di amarci ci mandò gli ingegneri russi». Quegli ingegneri educati a Mosca che assecondarono Krusciov quando, era la fine degli anni Cinquanta, decise che nelle vaste distese pietrose deserte del Kyzylkum sarebbe cresciuto cotone. Un vero miracolo dell’Urss. Ma non si trattava di qualche campo di cotone: in linea con la magniloquente politica del Cremlino, queste dovevano diventare le più grandi ed estese piantagioni di cotone del pianeta. Al punto che ancora qualche anno fa l’Uzbekistan era il secondo produttore al mondo di cotone dopo gli Stati Uniti, e oggi è comunque tra i primi cinque Paesi. Il piano era semplice: sottrarre l’acqua ai due grandi fiumi che alimentano il lago d’Aral, Amu Darya da Sud e il Sir Darya da Nord corsi d’acqua che scendono dagli altipiani del Pamir e dell’Hindustan, e costruire una gigantesca rete di canali che permettessero l’irrigazione di ettari e ettari di deserto piantato a cotone. C’era, e c’è ancora, un canale artificiale lungo 1.300 chilometri: doveva portare l’acqua in Turkmenistan. Lungo il percorso perdeva l’80 per cento della sua portata, evaporava, e in Turkmenistan non arrivavano che poche gocce. Anche i canali più piccoli, le opere di presa, le dighe, tutto perdeva. I sistemi di irrigazione erano un gigantesco spreco che condannava l’Aral e la sua gente. Però gli ingegneri sovietici avevano previsto tutto: anche la relativa scomparsa del lago, nel cui fondo acquitrinoso prevedevano si sarebbe piantato riso. L’Aral, con il suo immenso bacino nel bel mezzo di una immensa zona desertica, era considerato dai burocrati sovietici uno spreco di risorse utili all’agricoltura. Quasi fosse un lago borghese che cospirava contro il sol dell’avvenire. Così oggi al posto delle acque pescose dell’Aral è rimasto un deserto di sabbia, l’Aralkum, inquinato da quantitativi di pesticidi neanche misurabili per quanto sono intensi.
L’Uzbekistan, che a parole per bocca del suo presidente Karimov ha sempre detto di voler far tutto per fermare l’agonia del lago, continua senza sosta a pompare acqua dall’Amur Darya per irrigare le piantagioni di cotone che costituiscono comunque il sostentamento principale della sua asfittica economia. Peccato però che la produttività di queste terre cali di anno in anno. Se prima si ottenevano 4,5 tonnellate di cotone per ettaro, oggi sono 2,5. Ma in tante zone non si arriva neanche a 1,5. L’Aral oggi occupa circa il 10% della sua superficie anteriore. Si è diviso in due rami: l’Aral del nord, in Kazakistan, che in qualche modo sopravvive grazie a una diga costruita anni fa e alle acque sotterranee che affiorano e mantengono il volume. E l’Aral del Sud, in Uzbekistan, oramai inesistente. E dire che quando da Khiva ti dirigi verso Moynaq lo incontri diverse volte l’Amu Darya, il fiume più lungo dell’Asia Centrale, oltre 2.650 chilometri, molti dei quali in pieno deserto segnano il confine tra Uzbekistan e Turkmenistan dopo aver marcato per chilometri quello con l’Afghanistan. A qualche centinaio di chilometri dal suo delta oramai scomparso è ancora un fiume largo e imponente, con acque limacciose e lente. Poi però si perde nel nulla, come se esaurisse la sua forza vitale. La stessa che manca alle piantine di cotone.
La scomparsa dell’Aral ha modificato il clima della zona, rendendo ancor più torride le estati già torride, e più rigidi i gelidi inverni. Come se non bastasse, il prosciugamento del bacino ha liberato una quantità immensa di sale che portato dal vento si è depositato sui terreni per chilometri e chilometri. Così il 15% delle terre del Karakalpakstan è diventato troppo salato per essere coltivato. Danno che si somma al danno. L’incidenza di tumori, delle malattie della pelle, degli occhi, dei problemi polmonari qui è la più alta dell’intera Asia Centrale, colpa dei pesticidi utilizzati nelle coltivazioni di cotone. Prima finivano nel lago, adesso volano via. Tragedia che si somma a tragedia. Negli anni sono state anche proposte soluzioni fantasiose per invertire il destino dell’Aral, tra cui deviare il corso di alcun fiumi siberiani, o la costruzione di canali che portino l’acqua dal mar Caspio. Progetti, sogni, follie, almeno viste con gli occhi di chi ogni giorno cammina sul lungolago di Moynaq scrutando un orizzonte liquido che non c’è. Qui di sogni e progetti avveniristici dovrebbero averne avuto abbastanza. Tra tutti quelli lasciati indietro dal crollo dell’Unione Sovietica, gli abitanti di questa città in agonia sembrano essere tra quelli messi peggio. Se esistessero le Olimpiadi dell’abbandono, potrebbero certo vincere una medaglia nella categoria cartoline dallo sfascio. C’è un unico albergo a Moynaq, si chiama Oybek, a quest’ora avrà già chiuso.