Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 03 Giovedì calendario

Basta lamentarsi ogni volta che un’azienda italiana viene acquistata da capitali stranieri

Siamo reduci dall’ennesima querelle sui decimali di incremento del Pil e ne usciamo fuori con la netta sensazione che la ripresa italiana sia lungi dal decollare. La contrazione degli scambi internazionali sta giocando contro il nostro export e gli investimenti interni non riescono a ripartire. In più stiamo approvando una legge di Stabilità che assomiglia a un vestito di Arlecchino, tanti colori e tante pezzature diverse, manca però un chiaro indirizzo di medio periodo.
E il giudizio sempre più diffuso è che la nostra economia fatichi ad accelerare perché non riesce ad aprirsi, almeno nelle due direzioni che appaiono prioritarie. La prima è quella di una drastica semplificazione delle bardature burocratiche che impediscono di fare impresa, la seconda è l’apertura senza se e senza ma agli investimenti stranieri. Non possiamo continuare a lamentarci ogni volta che un’azienda italiana viene acquistata da capitali oltrefrontiera, dovremmo casomai incoraggiare più imprese tricolori a diventare delle multinazionali tascabili. Per una volta le colpe di un atteggiamento pigro e conservatore non sono solo a Roma, anche nei territori la burocrazia prevale sull’impresa, gli interessi miopi sullo sviluppo. Per un caso positivo che abbiamo salutato con scroscianti applausi – quando siamo riusciti ad attrarre in Italia la produzione del nuovo Suv della Lamborghini – se ne contano quotidianamente tanti altri di segno opposto.
E per dare semaforo verde a un Apple Store nel centro di Milano di anni ce ne sono voluti quattro.
Alla base c’è un deficit di cultura economica da parte degli amministratori locali che non hanno la capacità e la competenza per negoziare con una multinazionale i piani e le modalità di investimento e preferiscono brandire il megafono dell’arruffapopolo che si oppone agli invasori.
Il caso più recente è quello della Lombardia che si accinge a dire no all’Ikea. Con una secca presa di posizione della maggioranza, la Regione ha fatto sapere che esce dall’accordo di programma firmato insieme ai Comuni di Cerro Maggiore e Rescaldina per realizzare un centro commerciale nell’Alto Milanese.
La vicenda si trascina da cinque anni, gli svedesi vogliono rafforzare la presenza commerciale sulla direttrice Milano-Varese e il solo insediamento del magazzino Ikea avrebbe comportato un investimento di 80 milioni e 300 posti di lavoro. La giunta Maroni ha deciso da tempo una moratoria che impedisce la costruzione di centri commerciali fino al 2018, essendo però l’iniziativa svedese nata in epoca precedente, serviva un ulteriore atto politico per stopparla. Ed è arrivato. Nel comunicato con cui gli esponenti leghisti annunciano, con un certo autocompiacimento, la loro decisione, è inserito un ringraziamento al Movimento 5 Stelle perché ha condiviso e appoggiato la posizione del centrodestra.
Ma non è tutto. Mobilitati contro lo sviluppo troviamo anche esponenti di centrosinistra perché i Comuni di Rescaldina e di Cerro Maggiore sono amministrati da liste vicine al Pd. La motivazione del blocco è duplice: si sostiene di voler tutelare i piccoli commercianti della zona e di voler evitare che le modifiche alla viabilità richieste dall’Ikea stravolgano il territorio.
Nessuno vietava e vieta agli enti locali lombardi di esigere volumi compatibili con il paesaggio urbano esistente, spazi adeguati per i commercianti locali e la valorizzazione del tessuto artigianale in qualità di fornitore Ikea. Ma non è stato fatto. Perché un ragionamento di totale buonsenso come questo non trova campo? Perché da una parte si sostiene che dobbiamo attrarre investimenti esteri e dall’altra si lavora per metterli in fuga? L’Italia di oggi vive dentro questa schizofrenia che attraversa purtroppo tutta l’offerta politica e che finisce per azzoppare il Pil. Se fossimo stati lungimiranti l’Ikea sarebbe dovuta nascere, a suo tempo, con capitali italiani e dare così sbocco alla nostra (straordinaria) filiera produttiva del mobile e del design, l’idea è venuta agli scandinavi e non possiamo certo dolercene in eterno. A Roberto Maroni potrà suonare stonato ma dobbiamo essere contenti che vogliano investire sul nostro territorio.