la Repubblica, 3 dicembre 2015
Robinson Crusoe era uno sfruttatore capitalista
La moderna Europa occidentale – quella del benessere, della ricchezza, del capitalismo industriale e finanziario – deve molto agli schiavi neri, provenienti dall’Africa, al loro lavoro, al loro riprodursi e al contributo fondamentale che hanno dato alla nascita degli Stati Uniti sia quando soffrivano nelle piantagioni del Sud sia quando furono liberati, dopo una sanguinosa guerra civile, dalla loro condizione. Liberati,
ricordiamolo, grazie anche all’indignazione morale suscitata da un mediocre romanzo apparso nel 1851. Uno dei libri più celebri e più letti in America e in tutto il mondo: La capanna dello zio Tom. La sua autrice, Harriet Elizabeth Beecher Stowe, fu definita da Lincoln “la piccola donna che vinse la guerra civile”.
Un romanzo del genere non sarebbe stato pensabile, ovviamente, in Europa, dove gli schiavi neri (in America, nel 1861, erano quattro milioni) non esistevano, ma forse avrebbe potuto essere scritto dal qualche discendente di imprenditori, commercianti, banchieri, avvocati, faccendieri, investitori in Borsa, vissuti tra il Seicento e il Settecento. Distinti gentiluomini che quei neri avevano portato in America con un flusso regolare e secolare di navi che partivano a pieno carico dalle coste occidentali dell’Africa. Fecero guadagni da capogiro e con i loro investimenti gettarono le basi della rivoluzione industriale europea. Lo scrisse chiaramente un quasi coetaneo della Beecher Stowe, Karl Marx. In tante parti del Capitale e in particolare nel capitolo del Libro Primo “Genesi del capitalista industriale” attribuì anche alla tratta degli schiavi «uno dei momenti fondamentali dell’accumulazione originaria». Ecco una sua frase: «La trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale dei neri è tra i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica».
Dal punto di vista letterario le tante pagine che Marx ha dedicato al colonialismo e a uno dei suoi plusvalori più redditizi, la tratta degli schiavi, sono forse più efficaci della prosa della Beecher Stowe. Ad esempio: «La funzione preponderante che ebbe allora il sistema coloniale fu il “Dio straniero” che si mise sull’altare accanto ai vecchi idoli dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolar via tutti insieme e proclamò che fare del plusvalore era il fine ultimo e unico dell’umanità».
La ricerca storica ha confermato che la Beecher Stowe e Marx avevano colto nel segno. Una recente indagine della nostra Banca d’Italia ha documentato che dall’Africa partirono, incatenati, per l’America 12 milioni e mezzo di persone. Il pensiero corre, evidentemente, alle centinaia di migliaia di profughi, fuggiaschi, esuli, perseguitati, migranti che continuano a solcare il Mediterraneo in cerca di salvezza, facendo però guadagnare milioni di euro a “imprenditori” africani, mediorientali, europei. Vedremo sul lungo periodo come andrà a finire questa diversa ma singolare “tratta” di esseri umani. Comunque, tra il Seicento e il Settecento altri esseri umani, presi prigionieri e venduti come merce, diedero un reddito enorme ai “negrieri” e agli armatori delle navi negriere. Che la cosa allora fosse del tutto normale per gli europei lo prova, tra i tanti documenti che conosciamo, un romanzo tra i più affascinanti della letteratura europea: La vita e le straordinarie sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di York. L’opera è del 1719 ed ebbe un successo enorme. Robinson, vissuto, come è scritto nel titolo, “ventotto anni tutto solo in un’isola disabitata presso le coste dell’America”, è un’invenzione letteraria sulla quale si è detto tutto. Ma ancora oggi a qualche lettore forse possono sfuggire alcune singolari pagine di Defoe che svelano alcuni lati inediti di Robinson, la cui vicenda umana e la cui capacità di sopravvivenza sono sempre state lette come simboli, come mito dell’intelligenza pragmatica, della solidità morale, della abilità consapevole. Anche il nostro Marx fu colpito dal fascino sottile del romanzo e, sempre nel Capitale, sottolineò che «tutte le relazioni tra Robinson e le cose che costituiscono la sua ricchezza sono semplici e trasparenti. In esse sono contenute tutte le determinazioni essenziali del valore». Ma un lettore più acuto e ironico fu James Joyce che in una conferenza tenuta a Trieste nel 1912 dichiarò: «Tutta l’anima inglese è in Crusoe: l’indipendenza virile, la crudeltà inconscia, l’intelligenza tardiva eppur efficace, l’apatia sessuale, la religiosità pratica, la taciturnità calcolatrice». Ma né Marx né Joyce si erano accorti che il “marinaio” Robinson non era affatto un marinaio, ma un avventuriero in cerca di fortuna. Non contento di essere divenuto proprietario terriero in Brasile, aveva fiutato nuovi affari più redditizi. Era diventato un trafficante di schiavi. E fu in uno dei suoi viaggi come negriero che era naufragato in un giorno di settembre del 1659. La sua vita di prigioniero su un’isola deserta non cambiò il suo modo di essere e di pensare. Defoe mostra un uomo la cui struttura morale e culturale resta inalterata nella solitudine di quegli anni, mantenendo i tratti duri e invincibili del proprietario, del padrone (questa è la prima parola che insegna a Venerdì), del colono bianco (nell’isola deserta, oltre all’abitazione fatta all’inizio con duro lavoro manuale «avevo la mia residenza di campagna; e anche lì, possedevo ora una discreta colonia»). Tutto questo fa parte della struttura portante del racconto di Defoe, ma c’è in lui una strana consapevolezza nel far muovere, nel romanzo, il suo straordinario personaggio che, nonostante tutto, tende alla mediocrità opportunista più che, dopo quell’esperienza eccezionale, a significati e valori alti. Infatti, uscito vivo dalla prigionia, Defoe fa ritornare Robinson sull’isola, dove intanto si erano insediati degli scampati da altri naufragi e loschi figuri d’ogni genere. Torna con intenzioni precise: «suddivisi l’isola tra loro riservandomene la proprietà». Anche da qui cominciava “l’accumulazione originaria”.