la Repubblica, 3 dicembre 2015
Le bambine liberate del Bangladesh
C’è un villaggio, Dhubati, nel reticolo formato dal Gange e il Brahmaputra e da una miriade di altri fiumi. Tutto è fatto come un giardino di acqua e argini di creta e mattoni. Per arrivarci, dalla capitale Dhaka, c’è una mezz’ora di aereo a Jessore (120 km, in treno sono dieci ore), poi due ore e mezza di auto a Khulna, un’altra ora d’auto poi un’ora e mezza di battello a Kailashkanj Ghat, poi un tratto in motocicletta. Il villaggio è radunato attorno a una vasca recintata da bambù, per la prova di nuoto dei suoi piccoli, dai quattro ai dieci anni. Ogni esercizio è accolto da un grande applauso. Galleggiamento, nuoto, apnea, e finalmente la messinscena essenziale: una bambina simula – drammaticamente bene – di affogare, e un bambino grida all’allarme e interviene, porgendole una pertica cui afferrarsi. Poi, a riva, c’è anche la prova di rianimazione.
Quando l’Unicef inaugurò queste scuole di “Nuoto sicuro” qualcuno storse il naso, come per un lusso oltraggioso in tanta povertà. Il fatto è che mentre malattie e altre cause di mortalità infantile si riducono sensibilmente, il numero di bambini annegati in questi ritagli d’acqua resta spaventoso. Basta una distrazione delle madri –hanno una quantità di cose cui tener dietro- una scivolata, un gioco ingenuo. Allora la prima cosa è insegnare a nuotare, e la seconda cosa è insegnare a non buttarsi a soccorrere chi è in difficoltà: spesso muoiono in due, perché un fratellino si tuffa al salvataggio. Bisogna insegnare anche ai più piccoli di 4 anni, ma occorrono specialisti. Un australiano ha promesso di portarli. I bambini coinvolti sono 70 mila nel solo 13mo distretto, in 400 centri.
(Forse, se Aylan e Galip e Sena e tutti i bambini morti sulle spiagge dell’Europa avessero saputo nuotare…).
C’è il Club degli adolescenti, sono fieri di aver impedito tre matrimoni infantili in questo mese nel villaggio. “Bisogna stare attenti –dicono- perché certe famiglie, se gli fermi il matrimonio, lo vanno a fare in un altro villaggio”. Gli adulti approvano, ammirati: “Vanno dappertutto, come le mosche”.
Il battello sul delta fa una deviazione per portarci al punto in cui finisce il territorio degli umani e comincia quello delle tigri. Più in là visitiamo un altro villaggio illustre per il suo centro di giochi infantili e di teatro tradizionale. C’è un’assemblea preliminare coi ragazzi. Chiedono dei matrimoni in Italia. Chiedo loro se sanno qualcosa di Parigi. No, dicono. Anche a Parigi non sanno di loro.
La premessa è semplice e fulminante: il Bangladesh ha un territorio che è due terzi di quello italiano, e una popolazione di 162 milioni, tre volte quella italiana. La gran parte si trova appena sopra il livello del mare, troppo poco per proteggerla dalla furia ricorrente dei cicloni e delle alluvioni, o dalla furia imminente dell’innalzamento delle acque. Le acque sotterranee sono piene di arsenico in alcune aree, micidialmente saline in altre. Sono già milioni quelli cui manca la terra sotto i piedi. Alcuni arrivano da noi, a venderci la frutta di notte.
In un edificio fatiscente della Old Dhaka, al quinto piano, c’è un appartamento in cui abitano più di cento bambine e adolescenti. Non avevano nessuno, stavano in strada. Qui occupano un vasto salone che di notte si riempie di materassini. Stanno, da sole o in cerchi, a disegnare o fare i compiti, o sbrigare faccende. Un infermiere mi mostra con orgoglio la vetrinetta con un mucchietto di farmaci povero povero, e un cartellone scritto a mano con le malattie diagnosticate questa settimana. Non proverò a descrivere la grazia di queste bambine e la libertà senza bigottismi cui è ispirato il loro spettacolo per gli ospiti: danza, poesie, canti -e poi un’assemblea. Le fotografie lo faranno meglio. Sono contente di stare qui. Sono libere di andarsene quando vogliano: succede a una o due su cento. Finiscono gli studi fino al diploma. Mi chiedo che cosa succeda quando sono grandi abbastanza per l’amore. Ma qui come nelle baracche degli slum le ragazze tengono più alla propria formazione e all’indipendenza. L’amore, e il matrimonio e la maternità, verranno dopo: anche un matrimonio combinato a quel punto non sarà una servitù. Fatema, 16 anni, ora fa parte del Comitato di Protezione, e va a cercare altre bambine in strada. Suo padre morì quando aveva 4 anni, sua madre non riusciva a mantenerla. Andò a servizio in una casa, la picchiavano, e anche in strada la picchiavano, fino a che è stata invitata qui. Fa la nona classe, accudisce le altre, si è fatta un conto in banca. Adesso ha 255 taka, l’equivalente di 3 euro. Va a trovare sua madre e l’aiuta. Vuole diventare stilista.
L’Unicef, col ministero per le donne e i bambini, investe su adolescenti che mostrano una più forte volontà di farsi strada, oltre che un più feroce bisogno. Dà loro una somma -12 mila taka, 140 euro- a condizione che vadano a scuola e ci mandino fratelli e sorelle. Con quel capitale iniziale, comprano i mezzi per mantenersi. Per esempio, una vecchia macchina Singer, completa di fregi dorati pedale e ruota a maniglia. Shurma, 16 anni, studia e cuce stoffe. Sua madre va a servizio e suo padre guida il risciò. Ha due sorelle, una sposata a 15 anni, ora ne ha 20 e un bambino disabile, che è qui con Shurma e la zia. Il Comitato l’ha proposta per il sussidio.
Poco più in là c’è una sua amica, ha 17 anni. Ci accoglie con la madre, che si sposò a 15 anni, e ha avuto 3 bambine e 2 maschi. Suo padre è malato, ha bisogno di 500 taka (6 euro) al mese solo di medicine. Lei guadagna 200 taka cucendo. Le due sorelle maggiori sono state sposate bambine, e hanno sofferto per i parti. Ora ho capito che non si deve, dice la madre. Madre e figlia sono orgogliose l’una dell’altra. Lo “stipend” procurato dall’Unicef è di 15 mila taka, 89 euro. 6500 costava la Singer, il resto è andato per i libri. 1000 taka per affitto e bollette, ma siamo fortunate, dicono, gli altri pagano di più. Nel quadrato della baracca abitano in 7. (Traduco i taka in euro, per condividere il turbamento di scoprire quanto costa sospingere un destino personale). Questo slum, Korail, ha 600 mila abitanti, solo Mumbay e San Paolo ne hanno di più grandi. Fra una baracca e l’altra lamiere teli e pali di bambù, ogni tanto una stanza vuota adibita ad aula. Non ci sono banchi né lavagne, stanno seduti per terra, disegnano o leggono o scrivono, assorti come il Matteo di Caravaggio, il loro angelo è una giovane maestra povera come loro.
Lungo uno stradone polveroso di Dhaka c’è la baracca di Sharmin, studentessa dell’ottava e imprenditrice della carta stampata: impacchetta giornali vecchi. Ha 16 anni e un dipendente di 17 che batte su pezzi di ferro vecchio per ammucchiarli meglio. Lei e altri due raccolgono in giro la carta, la confezionano e la vendono a un magazzino più grande. Un kg di carta vale 8 taka, 10 centesimi di euro. Con la carta fa 2 mila taka al mese. Fra tutte le attività raggranella 10 mila taka, 124 euro, e mantiene tutta la famiglia. A volte basta una domanda scema per procurarsi una risposta memorabile. “Sei felice?”, le chiedo. “Sì. Perché no?”
Siamo arrivati il giorno in cui sono stati impiccati due dirigenti nazional-islamisti, condannati a morte per crimini di guerra. La guerra era quella di liberazione dal Pakistan, 1971. Il Bangladesh ha tratto da quella terribile guerra, che costò forse tre milioni di morti, un relativo secolarismo. Gli islamisti hanno proclamato un “hartal”, nome un tempo gandhiano per lo sciopero generale, oggi per un appello ad assalti e incendi a volontà. C’è stata una sequela di assassinii –a colpi d’ascia, di preferenza- di intellettuali, editori, cooperanti o imprenditori stranieri, esponenti di minoranze religiose. L’Is li rivendica, forse ancora indebitamente; il governo nega che esista l’Is in Bangladesh, per esorcizzarne lo spettro.
C’è uno spaesamento in viaggi come questo. Quanti abitanti ha Dhaka, 20 milioni, 30? Ogni luogo è affollato a Dhaka. Come e più che in India, il progresso prodotto dall’azione di governo, di organizzazioni vaste come l’Unicef o il BRAC di sir Abed, la più importante ONG, o la Banca del Nobel Yunus, e dei loro partner di ogni dimensione, è così veloce da eccitare per contraccolpo la reazione di interessi e pregiudizi colpiti, i patriarcali e pseudoreligiosi in primo luogo. Le adolescenti che incontriamo, i quaderni in un angolo del tavolaccio che fa da letto e da tutto, e la macchina da cucire subito accanto, stanno sfuggendo di mano ai padroni di sempre. Succede, come nello spettacolo teatrale del villaggio di Dacope, che le adolescenti dicano drammaticamente ai loro padri e nonni: vi vogliamo bene, non pensiamo che siate colpevoli, vi hanno insegnato che andava bene così, ora le cose cambiano, sareste colpevoli se voleste continuare così dopo aver capito che non era giusto… I padri e i nonni applaudono compiaciuti. La ragazza adolescente che ha sventato il matrimonio forzato e ha salvato un bambino che stava per annegare è il loro vanto, e ora è la maestra di nuoto dei bambini di quattro anni.
La combinazione fra vite singole e folla onnipresente e in perpetuo moto rende inconcepibile la nostra privatezza. Qui l’enormità del numero si suddivide in una trama infinita di comitati, elettivi o spontanei, incaricati dei problemi sociali, la protezione infantile e femminile in primo luogo. Il riserbo delle famiglie ne è senz’altro violato, ma quel riserbo copriva il matrimonio infantile e il suo corredo di violenze –malattie e morti di parto, sequestri e botte legate alla tradizione della dote, prepotenze di mariti e suocere- e l’arbitrato delle comunità diventa un argine essenziale. Negli organi della comunità cresce anzi una gara orgogliosa a realizzare i traguardi civili, che prevale sugli stessi pregiudizi dei loro componenti.
L’Unicef italiana è fra i più importanti donatori in Bangladesh. Le campagne che l’Unicef conduce toccano il cuore della cosiddetta guerra di civiltà. Contro il matrimonio infantile, per l’educazione delle bambine, contro il lavoro infantile… Unicef è il marchio più amato nel mondo. I suoi attori e i suoi partner che ci incontrano “sul campo”, Zahidul, Jamil, Aroti Rani, Konika, Rokibul…, sono gente meravigliosa. Non si occupano di politica, e intervengono sui fondamenti della civiltà quotidiana, della sua libertà, consapevolezza e gentilezza. Reciprocamente, succede che la politica non si occupi di quei fondamenti, e li deleghi alla buona volontà. Ma guardiamo dentro il progetto jihadista. I suoi miliziani amano il potere e la conquista, sono ubriachi di sangue e di morte, ma il nocciolo della cosa sta nella restaurazione del matrimonio infantile –per le bambine di 9 anni, precisano- nell’esclusione delle bambine dall’educazione –come vogliono i talebani o Boko Haram e così avanti – nell’autorizzazione a stuprare e rendere schiave bambine e bambini “infedeli”, nella riduzione dell’educazione dei bambini al libro sacro imparato a memoria e al mestiere della macelleria. Il jihadismo nelle sue varie versioni si batte sanguinariamente per reinstaurare gli orrori che bambine e bambini si battono per cancellare. La posta della cosiddetta guerra è là.