la Repubblica, 3 dicembre 2015
Il fenomeno dei super-ricchi che si divertono a fare i filantropi
Robin Hood può mettersi il cuore in pace. Rubare ai ricchi per dare i poveri non serve più. I ricchi del mondo sono così ricchi che a dare ai poveri, ormai, ci pensano direttamente loro. Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook che girerà in beneficenza il 99% delle sue azioni (valore 45 miliardi di dollari) tenendo per sè la miseria di 450 milioni, è solo l’ultimo arrivato nella lista dei Paperoni che d’oro, oltre al conto in banca, hanno pure il cuore. I 10 uomini più generosi d’America, da Bill Gates a Tim Cook (Apple) da George Soros a Michael Bloomberg, hanno donato a fin di bene lo scorso anno la bellezza di 7 miliardi. L’ex patron di Microsoft e Buffett – il Re Mida di Wall Street – hanno devoluto da soli in un decennio 51 miliardi. E assieme hanno lanciato “The Giving Pledge”, una sorta di cartello della bontà dove gli uomini più ricchi del mondo si impegnano a lasciare tutti i loro averi al prossimo. Appello raccolto finora da 138 persone che valgono (beate loro) 610 miliardi, il triplo del pil della Grecia. Una pioggia di denaro che sta cambiando il volto del welfare mondiale dove il “filantrocapitalismo” si sostituisce sempre più spesso – senza controlli e senza pianificazione, dicono i critici – agli Stati e alle istituzioni, privi della potenza di fuoco dei nuovi miliardari del pianeta.
Una cosa, ovviamente, è certa. Pecunia – come dicevano i latini – non olet. E chi riesce a dribblare una malattia ad alto tasso di mortalità grazie a una profilassi nel cuore della savana in Africa non si preoccupa se a pagare il vaccino è l’Unicef o un tycoon a stelle strisce. La verità però è che in un mondo dove l’1% delle persone controlla il 40% della ricchezza e il pubblico è a corto di liquidità, a tappare i buchi dove il bene non genera profitto sono sempre più spesso i benefattori privati.
I colossi della farmaceutica, per dire, hanno poco interesse a sviluppare campagne anti-malaria perché i paesi che avrebbero bisogno dei loro prodotti – quelli più poveri – non hanno i soldi per pagarli. Risultato: a fare da supplente è arrivata la Fondazione Bill Gates che stanziando 3,6 miliardi ha coperto ben più della metà dei fondi a disposizione per debellarla. Stesso discorso per la poliomelite. Oms & C. hanno lanciato in pompa magna un piano per sradicarla. Chi paga? Non Pantalone. Anzi. Degli 11 miliardi stanziati tra il 1985 e il 2018, poco più di 2 arrivano dal Governo Usa e una somma simile dal fondatore di Microsoft. L’Oms ha stanziato appena 162 milioni e l’Unicef 212.
I super-ricchi, insomma, stanno privatizzando surrettiziamente – una donation alla volta – una fetta di quello che dovrebbe essere un servizio pubblico. Zuckerberg ha regalato nel 2010 100 milioni alle scuole statali di Newark. Li Ka Shing di Hutchison Whampoa (tlc) ha dato in beneficenza decine di milioni per soccorrere le vittime di alluvioni in Cina. Bloomberg ha stanziato 42 milioni per aiutare le municipalità Usa a digitalizzarsi. Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo, ha girato 100 milioni al Wwf per salvare le foreste messicane. Azim Premji di WiPro ha firmato un assegno da 8 miliardi per sostenere le scuole pubbliche indiane.
Il tutto, naturalmente, è fatto quasi sempre nel massimo della trasparenza, come si conviene a imprenditori cresciuti a Wall Street. I conti della fondazione Gates, per dire, sono certificati dollaro per dollaro da Kpmg. Scrupolo che non è bastato a salvarla dalle polemiche. Alcune Ong hanno contestato gli investimenti della liquidità in azioni a rischio “etico”: un miliardo sui combustibili fossili, qualche milione su Coca-Cola e McDonald. Altre criticano i suoi stanziamenti in agricoltura sostenibile (500 milioni nel 2015) per il rischio di uso di semi Ogm. James Love, dell’Ong Usa Knowledge Ecology, sostiene che «chiunque voglia fare carriera all’Oms deve avere buone relazioni con i coniugi Gates». Che con 140 milioni girati all’organizzazione nel 2015 sono tra i suoi maggiori finanziatori.
Nel tritacarne è finito pure Zuckerberg, reo di aver costituito per le sue donazioni una Spa ad hoc. «È più flessibile – dice lui – e gli eventuali profitti vanno per statuto a fin di bene». «Storie, serve a dribblare le tasse», accusano in queste ore i suoi detrattori.
Altro punto dolente, l’uso “promozionale” della beneficenza dei nuovi ricchi. I docenti dell’università di Oxford, ad esempio, hanno contestato l’ok ai 75 milioni di sterline dell’oligarca Lev Blavatnik per sponsorizzare la cattedra della Bravatnik school of government. Il tycoon, dicono, sarebbe stato tra i promotori di una campagna contro Bp che ha costretto molti inglesi a lasciare la Russia. Le polemiche però non bastano a frenare lo tsunami di donazioni. Nel 2014 gli americani hanno stanziato 358 miliardi, riportando il totale ai livelli pre-Lehman. «Morire pieni di soldi è una disgrazia», sosteneva Andrew Carnegie, pioniere a inizio ‘900 della beneficenza seriale. In molti, specie chi i soldi li conta in miliardi, hanno deciso di prenderlo in parola.