Corriere della Sera, 3 dicembre 2015
Che cosa pensa del web Tim Berners-Lee, l’inventore del web
Il grande merito di Tim Berners-Lee, il fisico del Cern nato nei sobborghi di Londra che nel 1989 inventò il web, non sta solo nell’aver dato la Rete al mondo, ma nell’aver spinto perché nascesse libera. La scelta di non brevettare quel protocollo depositato tre mesi dopo la caduta del muro di Berlino è, ancora oggi, il pilastro su cui si fonda l’accesso libero e gratuito al web. Era solo l’inizio, probabilmente la parte più semplice, direbbe l’inventore con la sua sobrietà britannica e l’aria del professore che tutti gli studenti vorrebbero incontrare.
Parallelamente alla sua carriera di visioni e riconoscimenti – dalle più importanti fondazioni e università del mondo fino alla nomina di cavaliere conferita dalla Regina Elisabetta nel 2004 —, sono avanzati i tentativi, politici e commerciali, di minare proprio quella autonomia di cui Berners-Lee, 60 anni, è garante. Lo incontriamo a Milano mentre è impegnato in eventi organizzati da Telecom. Camicia bianca, occhi vispi e un’evidente incompatibilità tra la velocità del pensiero e quella delle parole, l’informatico risponde alle domande del Corriere.
Lo spazio libero del web sembra essere stato occupato negli anni, sempre di più, da aziende che hanno imposto le loro regole e il loro business model. È deluso dall’evoluzione della sua scoperta?
«Dice occupazione come se stessimo parlando di nazioni. Ma il web non è territorio. Se una compagnia lancia un enorme social network, non limita il movimento degli altri: occupare lo spazio, non toglie ossigeno alla rete. Io vedo il web popolato da tantissime realtà diverse. Nel mondo occidentale, ad esempio, le compagnie che offrono internet sono molto aperte, li definirei buoni provider di neutralità: consentono di fare quello che vuoi con il servizio. Il problema riguarda il fatto che troppe persone vivono saltellando tra social network».
Sta dicendo che – nella nostra esperienza online – è davvero possibile tenersi alla larga da Google e Facebook?
«Abbiamo qualche monopolio, certo. All’inizio il dito era puntato contro Netscape, perché era l’unico sistema di navigazione, poi contro Microsoft perché non solo aveva sviluppato un browser più potente ma era legato anche al sistema operativo. A un certo punto, è arrivato Google e il suo motore di ricerca. Mentre lottavamo contro la posizione dominante di Mountain View, è spuntato Facebook e l’ingegneristica sociale. Come si evince, la storia del web è apparentemente una storia di alternarsi di monopoli, ma la verità è che all’improvviso il vento cambia e l’enfasi si sposta altrove: mentre siamo concentrati sul presunto “nemico” del momento, arrivano invenzioni. In rete c’è molto più offerta di quella che appare: ci sono le grandi compagnie ma anche le piccole che non profilano i propri utenti. Anche se in questa parte di mondo Google resta dominante, esistono altri siti che si prendono cura delle informazioni personali degli iscritti, ad esempio Miki. Mi rendo conto che è frustrante vivere in uno spazio dove l’innovazione e la creatività sembrano concentrate in un’azienda, ma il web è ancora un mercato libero e per questo può cambiare velocemente».
Dopo gli attentati di Parigi, è tornata in campo l’equazione meno privacy-più sicurezza. Alcuni, come il direttore della Cia John O. Brennan e il sindaco di Londra Boris Johnson, hanno affermato che le rivelazioni di Edward Snowden sulla «sorveglianza di massa» della National Security Agency abbiano indebolito la lotta al terrorismo. Esiste un rapporto diretto tra privacy e sicurezza?
«È una relazione parecchio difficile che comprende innanzitutto una questione di responsabilità: dare conto delle proprie azioni. Se c’è bisogno di raccogliere i dati dei cittadini a scopo di sicurezza o di anti-terrorismo, ho il diritto di sapere a cosa servono i miei dati e chi li gestirà. La polizia è legittimata ad avere il potere e i sistemi di sicurezza di cui ha bisogno per fare il suo lavoro. Responsabilità significa non consentire un accesso di massa ai dati privati, ma limitare l’attività a un fine, rendendo trasparente il processo. Le rivelazioni di Snowden hanno mostrato che la raccolta dei nostri dati avviene invece in un vuoto preoccupante di responsabilità. Le persone si fidavano dei governi, che a loro volta si fidavano delle agenzie di sicurezza. E invece hanno scoperto che c’era ben poco da stare tranquilli».
La paura della sorveglianza del vicino è tra le cause della tendenza alla «balcanizzazione» del web. È un rischio reale?
«Alcuni Stati stanno pensando a barriere nazionali per i dati dei propri cittadini, ma se davvero internet si balcanizzasse sarebbe una perdita di libertà incredibile... Visto che la maggior parte del mondo è iperconnesso, quei Paesi che hanno la tendenza a isolarsi e nazionalizzare internet sono gli stessi che “spammano” con informazioni sui loro prodotti e vogliono essere parte dell’economia globale. Se vuoi vendere i tuoi prodotti in Cina, i tuoi dati devono essere sul web. Se non ci sono, non esisti nel mercato. E per esistere e competere c’è bisogno di una internet aperta».
Usa e Unione europea continuano ad avere una visione diversa sul web: liberista i primi, protezionista la seconda. Cosa ne pensa?
«Apprezzo l’attenzione alle regole dell’Unione europea anche se si scontra spesso con la difficoltà di scrivere una legge da applicare alle tecnologie, a servizi che le persone useranno domani. Quella sui cookie era parzialmente giusta eppure è stata interpretata male: gestori di siti che non tracciavano i propri utenti hanno trovato ingiusta l’universalità del provvedimento. C’è bisogno di un vocabolario comune tra chi fa i siti, chi li frequenta e chi detta le leggi»
Uno dei provvedimenti della Ue più discussi riguarda il diritto all’oblio: la possibilità di chiedere a Google la rimozione di informazioni sul proprio conto. La decisione spetta a Google, arbitro e giocatore nella stessa partita.
«C’è molta confusione su questo argomento ma cancellare dati non è mai una buona soluzione. Gli americani non hanno esercitato questo diritto perché lo ritengono in contrasto con la libertà di parola, essenziale per raggiungere la verità. Credo che una via costruttiva sia, ancora una volta, la responsabilità. Se ho risolto i miei problemi finanziari con una banca quindici anni fa perché quei dati sono ancora disponibili? È la banca che deve garantire per me con regole chiare. Continuo a credere che internet abbia bisogno di regole “aperte”, non di cassette di sicurezza».