Fulvia Caprara per La Stampa
Uomini eleganti, tormentati, fascinosi. Certe volte in preda a un senso di inadeguatezza esistenziale, altre semplicemente ironici, innamorati, e comunque mai banali. Debuttante nei primi Anni Quaranta dopo il diploma all’Accademia d’Arte drammatica, Gabriele Ferzetti (ma il nome di battesimo era Pasquale) ha attraversato, seguendo i percorsi del cinema e del teatro, un’epoca fiorente dello spettacolo italiano.
L’inizio in palcoscenico, nel 1948, è con Luchino Visconti, che lo dirige in Come vi piace di Skakespeare, il primo ruolo importante, sul grande schermo, nel 1960, è nell’Avventura di Michelangelo Antonioni, dove interpreta l’architetto Sandro, archetipo di incapacità maschile di amare evitando le trappole dell’abitudine e del conformismo. Le tante, diverse, corde recitative, unite a una fisicità flessibile, non troppo caratterizzata, adatta a modellarsi su ruoli e personaggi differenti, trasformano presto Ferzetti in attore richiestissimo dal miglior cinema italiano. Dopo Mario Soldati che (nel ‘53) gli aveva affidato il ruolo di marito tradito nella Provinciale, al fianco di Gina Lollobrigida, dopo Steno che (nel ‘55) lo fece recitare nelle Avventure di Giacomo Casanova (tagliatissimo dalla censura per i riferimenti erotici troppo sfacciati) e dopo Antonio Pietrangeli che lo aveva scelto (nel ‘58) per la commedia Nata di marzo, arrivano le prove con Florestano Vancini, nella Lunga notte del ‘43, con Elio Petri in A ciascuno il suo, con Salvatore Samperi in Grazie zia, con Sergio Leone in C’era una volta il West.
Fuori dai confini nazionali, Ferzetti appare nella Confessione di Costa-Gavras, accanto alla coppia formata da Yves Montand e Simone Signoret, in Divorzia lui, divorzia lei di Waris Hussein, protagonisti Liz Taylor e Richard Burton, in Nina di Vincent Minnelli, con Liza Minnelli e Ingrid Bergman e, nel ‘95, nell’Otello di Oliver Parker, dove il ruolo del protagonista era affidato, per la prima volta, a un interprete di colore, Laurence Fishburne, mentre Kenneth Branagh era Iago. A Ferzetti toccò un fugace cameo nelle vesti del Doge di Venezia, ma, anche allora, non passò inosservato.
Della sua carriera scintillante e instancabile fa parte l’immagine di attore schivo, abituato a evitare, fuori dal set, le luci dei riflettori e i flash dei paparazzi, meno irruente e meno mattatore di colleghi come Gassman o Sordi, ma perfettamente in grado di incarnare, negli anni, le trasformazioni del carattere virile. In Io sono l’amore di Luca Guadagnino metteva in mostra, ancora una volta, la sua ineguagliabile classe, un signore capace di reggere al meglio il passare del tempo. Il Ministro Dario Franceschini lo saluta definendolo «grande interprete, amato dal pubblico, e apprezzato per il suo talento dai più importanti registi della scena nazionale e internazionale. Alessandro Gassmann in un tweet gli augura «buon viaggio», la figlia Anna Ferzetti, anche lei attrice, lo piange al fianco del marito Pierfrancesco Favino, con cui ha avuto due figlie.
Gloria Satta per Il Messaggero
Se n’è andato a 90 anni Gabriele Ferzetti, attore grande ed eclettico. «Il Laurence Olivier italiano», così lo definiva Dino Risi. Cinema, teatro, televisione: nella sua lunga carriera a 360 gradi, Ferzetti ha saputo continuamente mettersi in discussione, ricominciare, rischiare all’insegna della passione, del rigore, addirittura del puntiglio.
Nato a Roma il 17 marzo 1925, padre dell’attrice Anna Ferzetti, aveva iniziato in teatro, recitando Tennessee Williams e Pirandello. Ma molto presto sarebbe arrivato il successo nel cinema grazie a grandi registi come Antonioni, Soldati, Emmer, Pietrangeli, Steno, Leone, Petri, Monicelli, Montaldo, Zampa, Vancini, Bolognini, Young, Costa Gavras (ma anche esordienti come Samperi e Faenza) che in oltre 130 film gli hanno offerto ruoli complessi, incisivi, spiazzanti, mai facili o scontati.
L’attore è stato il pittore fallito di Le amiche, il professore tradito de La provinciale, il marito troppo “adulto” di Nata di marzo, l’amante sleale dell’Avventura, il vanitoso intellettuale di sinistra di Grazie zia, il capomafia di A ciascuno il suo, lo spregiudicato magnate ferroviario di C’era una volta il West, il barone corrotto di Bisturi mafia bianca, l’inquisitore staliniano di La confessione, che interpretò in un francese sorprendente frutto del suo proverbiale perfezionismo.
Ferzetti ha avuto una vita costellata di svolte, esperimenti, azzardi, rischi, rinascite. Sempre all’insegna del coraggio, della passione priva di calcolo, della gioia di darsi. E non ha mai smesso di sorprendere il pubblico: negli anni Sessanta era un mostro sacro del cinema e al culmine del successo decise di tornare a buttarsi nel teatro compiendo il cammino inverso a tanti attori che abbandonano il palcoscenico dopo aver assaporato i fasti del set. Quando riempiva da solo i teatri, non esitò a mettersi in gioco rappresentando un autore italiano contemporaneo, il Brusati di Le Rose del lago. Dopo aver girato La confessione e Il Portiere di notte, decide di affrontare la tragedia greca: e fa Prometeo, tra gli elogi della critica e gli applausi del pubblico. Pur essendo un uomo bellissimo (un sex symbol, lo definiremmo oggi), ha rinunciato a trasformarsi nella macchietta del latin lover nazionale per scegliere con entusiasmo ruoli di cattivo, uomo sgradevole, tipo ambiguo, mafioso e gangster insospettabili dietro il suo aspetto seducente e distintissimo. Ha condiviso spesso il set con Marcello Mastroianni, Gino Cervi, Clara Calamai, Marina Berti e Aroldo Tieri.
Sinceramente, istintivamente anticonformista, è stato un artista a tutto tondo che ha fatto della propria personalità non facile, non accomodante e non prevedibile il binario portante della sua carriera. Un proverbiale "caratteraccio" lo ha sempre tenuto lontano dai riti e dai miti dello spettacolo. Non ha mai fatto parte di clan, di gruppi di potere o di partiti. E la sua storia professionale non denota neppure una concessione alla faciloneria, a quel pressappochismo figlio del "volemose bene" connaturato a un certo spettacolo italiano.
Ferzetti aveva cominciato il suo percorso d’attore frequentando l’Accademia d’Arte drammatica, ma l’avrebbe abbandonata dopo pochi mesi insofferente alla teoria e convinto che l’arte si pratica sul campo. E ha sempre girato i film che gli piacevano, accettando perfino parti da vecchio come Puccini, il ruolo che lo fece diventare un divo quando aveva meno di trent’anni. Si è tenuto lontano dalla commedia perchè non gli interessava, proprio negli anni in cui il cinema italiano tributava onori e lauti guadagni agli alfieri della risata.
Al risultato facile, ha sempre anteposto il piacere di recitare e la voglia di perfezionarsi in una continua sfida con se stesso. E’ il motivo per cui ha amato lavorare con gli stessi compagni (come Anna Proclemer, la partner di una vita sul palcoscenico, o il regista Antonio Calenda) che gli hanno garantito la possibilità di rifinire, scavare, capire di più di se stesso e della sua arte. «Butterei sempre tutto in aria e ricomincerei da capo», rivelava nelle interviste.
Ha lavorato fino a cinque anni fa. In Io sono l’amore di Guadagnino era il suocero di Tilda Swinton. Il suo ultimo film è Diciotto anni dopo, di Edoardo Leo (2010) e in tv l’abbiamo visto nella miniserie Papa Luciani. Nella sua carriera c’è anche un film della saga James Bond, 007 Al servizio di Sua Maestà. Ferzetti non ha mai perso la voglia di crescere, imparare, conoscere. E arrabbiarsi, quando era il caso. Mancherà allo spettacolo, mancherà a tutti.