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 2015  dicembre 03 Giovedì calendario

Rubens era gentile, sereno e positivo. L’opposto del violento Caravaggio

All’inizio di giugno del 1608 Pieter Paul Rubens terminava di dipingere a Roma l’Adorazione dei pastori per la chiesa di San Filippo Neri di Fermo. Caravaggio era fuggito dalla città eterna esattamente due anni prima, inseguito da una condanna a morte per omicidio e dalla fama di pittore più geniale del tempo. Tutti i giovani imitavano la sua maniera e anche Rubens, che aveva solo sei anni meno di lui, ne era rimasto sedotto, come si vede nei forti contrasti di luce del dipinto marchigiano.
L’anno prima si era anche battuto affinché il duca di Mantova, al cui servizio il fiammingo lavorava, comprasse la grande tela con la Morte della Vergine dipinta da Caravaggio e rimossa da Santa Maria della Scala perché si diceva che nei panni della Madonna fosse ritratta una prostituta annegata nel Tevere. Quando dopo due mesi di trattative Rubens riuscì a ottenere l’opera, allestì un’esposizione pubblica nel palazzo dell’ambasciatore di Vincenzo Gonzaga, Giovanni Magni, e tale fu la folla di coloro che accorsero a vederla, che si dovette tenere aperta la casa per un’intera settimana.
Rubens era fatto così: generoso, immune dalla meschinità e dalle invidie che affliggevano gli altri pittori. Era uno spirito gentile, sereno e positivo. L’opposto del violento Caravaggio. La mano di carte fortunate che la vita gli aveva riservato comprendeva anche un bell’aspetto. Quando arrivò a Venezia nel giugno del 1600, a 23 anni, portava i capelli lunghi fino alle spalle, i baffi arricciati, e con le sue maniere da gentiluomo affascinò il duca di Mantova. Vincenzo Gonzaga era uno splendido dissipatore di ricchezze, dedito alle avventure galanti, alle cacce, ai banchetti, al gioco d’azzardo e a quello della guerra (ci andava vestito con abiti tempestati di gemme, accompagnato da buffoni e musici guidati da Claudio Monteverdi). Invitò subito Rubens alla sua corte, ma essendo sempre a corto di liquidi lo lasciò libero di dipingere per altri committenti. Lo inviò anche in missioni diplomatiche grazie alle quali Rubens fece incontri straordinari come quello con Diego Velázquez che il re di Spagna Filippo IV teneva recluso a corte, al suo esclusivo servizio.
Velázquez aveva 22 anni esatti meno di Rubens e sebbene sotto gli occhi, a Madrid, avesse a disposizione i migliori Tiziano del mondo, quelli collezionati da Carlo V, sognava di andare in Italia. Fu Rubens a convincere Filippo IV a concedere a Velázquez un viaggio a Roma: nessuno quanto lui stesso poteva capire quel desiderio. Roma era la grande passione del fiammingo, anche se fama e ricchezza erano decollate a Genova grazie agli straordinari ritratti delle ricche mogli dei mercanti genovesi. Corteggiato e a suo agio fra quei borghesi che prestavano i soldi agli uomini più potenti d’Europa, divenne amico di Nicolò Pallavicino, banchiere di Vincenzo Gonzaga e ancora a distanza di molti anni i due erano così legati che il pittore chiese al banchiere di fare da padrino al suo secondo figlio.
Un’altra missione diplomatica, a Firenze per accompagnare il Gonzaga alle nozze per procura di Maria de’ Medici con Enrico IV, fruttò a Rubens vent’anni dopo uno dei contratti meglio pagati: quello per le tele della galleria del Lussemburgo, a Parigi. La vita, insomma, rovesciò su Rubens tutti i suoi doni: talento, gloria, amicizie, ricchezza, intelligenza, una grande casa all’italiana nella sua Anversa, e due mogli adorate: Isabella e, dopo la morte di questa, la giovane Hélène. La sposò a 54 anni, al ritorno dall’Inghilterra: lei aveva 16 anni e veniva da una famiglia borghese.
Dopo la nomina a cavaliere concessagli da Carlo I per i servizi resi in favore della pace fra Inghilterra e Spagna, tutti si aspettavano che il pittore avrebbe scelto una dama a corte. Invece, finalmente liberato dagli impegni diplomatici, Rubens tornò a dilettarsi con la pittura. L’ultima cosa di cui aveva bisogno, ormai straricco e padrone del suo tempo, era una moglie aristocratica, che sarebbe magari arrossita a vederlo prendere i pennelli in mano. Lui non era come Caravaggio, che sfidava la vita. A Rubens piaceva gustarla. Con la naturalezza e la calma di chi sa di poter dire «tout vient chez moi».