Corriere della Sera, 3 dicembre 2015
«È come una roulette russa. Ma non volevo infettarle». Parla il ragazzo sieropositivo che ha contagiato sei donne
«Non volevo fare del male è stata una leggerezza»: Valentino T., 30 anni, definisce così il suo comportamento. Per il pubblico ministero, invece, si tratta di «lesioni personali gravissime e insanabili» nei confronti di sei donne (ma c’è ragione di credere che siano di più) e gli contesta l’aggravante dei cosiddetti «futili motivi». Perché sapendo di essere sieropositivo il ragazzo chiedeva alla partner di rinunciare al preservativo: migliorava la performance, massimizzava il piacere. Il resto era una lotteria, come lui stesso adesso ammette.
Nemico del condom, amico delle chat, il giovane arrestato due giorni fa adescava su Facebook, Chatta e WhatsApp. Di quando in quando proponeva: «Facciamo sesso a tre?». In tante gli dicevano di sì. Il difensore che oggi lo assiste, l’avvocato Giuseppe Minutolo, usa la parola «superficialità» per spiegare l’incomprensibile. Per tentare di definire la bolla in cui vivono loro, gli adolescenti. «Le ragazze ci stavano, qualcuna mi rispondeva sì al primo invio. Non ho mai forzato nessuna, a loro andava di farlo così» dichiara dal carcere di Regina Coeli.
Orfano da quando aveva sette anni, cresciuto con uno zio quasi coetaneo, diplomato in ragioneria in un istituto di periferia a Roma. Contabile per una piccola azienda, per nove anni ha giocato con la vita delle persone: dal 2006 al 2009. Un ceppo del virus Hiv gli impone tuttora massicce terapie retrovirali, analisi e verifiche con relativi effetti collaterali. Non è la peste degli anni Ottanta ma, giura, «qualcosa con cui puoi convivere». E azzarda: «È come avere a che fare con la roulette russa». A volte va male, spesso no. «Ho vissuto con la maggior parte di queste donne, eravamo innamorati, facevamo colazione in cucina al mattino: perché avrei dovuto fargli del male?» chiede con gli occhi sgranati, spaventato dal carcere ma senza capire, convinto che alla roulette russa si possa anche scampare. Perché rischiare però? Di fronte a questa domanda è sempre rimasto in silenzio.
Nel suo caso la patologia, sostiene l’avvocato, era in fase regressiva «al punto da rendere il contagio improbabile». È la sua linea difensiva. Il legale produrrà una consulenza sul cosiddetto «effetto bandierina», cioè un periodo in cui il virus è più debole e la sua capacità di contagio si riduce. «Ecco perché il mio cliente ha ritenuto di poter gestire la malattia e gli effetti sulle partner». Ma il vero asso nella manica di Valentino è la sua attuale compagna. Trent’anni anche lei, uno stipendio, amici dello stesso giro delle vittime. Innamorata, leale ma soprattutto negativa al test. «È la dimostrazione – sostiene il difensore – che il mio cliente non è un mostro. Certo, è un ragazzo che non ha avuto un’educazione sentimentale o affettiva, ma altro non c’è».
L’uomo che infettava le donne ripete: «Ho commesso una leggerezza. Credevo non sarebbe successo». Una delle ragazze, quando ha saputo, è andata da lui a casa dello zio per gridargli tutta la sua rabbia. Lui ha cercato di calmarla, non si è nascosto, non ha protestato, non si è difeso. Quasi fosse la vita di un altro. Qualche volta i suoi rapporti erano tre in contemporanea, «a nessuna sentiva di far mancare qualcosa». L’avvocato ha fatto richiesta dei domiciliari. Il carcere, dice «mi terrorizza». «Sono l’unico Valentino arrestato, sanno la storia della sieropositività». Mercoledì il compagno di cella gli ha detto: «Se mi infetti, ti spezzo».