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 2015  dicembre 03 Giovedì calendario

Podemos ha già stancato gli spagnoli?

Da fenomeno a mitomane il passo è breve; e secondo la maggioranza degli spagnoli Pablo Iglesias questo passo l’ha compiuto.
Un anno fa, in questi giorni, Podemos era il primo partito di Spagna. Ora è il quarto. Nel frattempo a Iglesias è successo di tutto. Si è lasciato con la compagna, un’altra star mediatica, la comunista Tania Sanchez. Ha ammesso di sentirsi cansado, stanco. Ha perso il suo braccio destro, Juan Carlos Monedero, autore del saggio dal delirante titolo Innamorarsi di un camminante delle nevi ma sposare un Lannister, accusato più prosaicamente di evasione fiscale e traffici finanziari con il Venezuela. Nei sondaggi del País, Podemos è passato dal 28% al 14. Il capo ha l’approvazione solo del 30% degli spagnoli. Soprattutto, è il leader con il più alto tasso di disapprovazione: il restante 70% non è indifferente o scettico; lo considera un pericolo per i propri risparmi o un dilettante allo sbaraglio.
Intendiamoci: a 17 giorni dalle elezioni lo scenario è apertissimo; e Iglesias è tutt’altro che finito. Resta un personaggio di grande interesse e di straordinaria abilità dialettica. Secondo il responso di Twitter, è stato il più brillante nel primo dibattito elettorale, davanti al socialista Sánchez e a Rivera di Ciudadanos (il premier Rajoy non si è presentato). Però si sta confrontando con i propri limiti. E con la realtà. È rimasto un imbonitore televisivo, privo di qualsiasi esperienza amministrativa, come quando conduceva il suo talk-show, “La Tuerka”. Ma, dovendo presentare un programma da candidato premier, «è passato da Chávez alla socialdemocrazia» come sintetizza lo scrittore Javier Cercas. Un’evoluzione parallela a quella del suo vero riferimento, che non è Grillo ma Tsipras; anche se lui sostiene di ispirarsi semmai a Daenerys Targaryen, Madre dei Draghi e Distruttrice di Catene, e alla regina Khaleesi, che libera gli schiavi proclamando: «Non sono io che vi ho liberato, la libertà vi appartiene». È infatti convinto di vivere in una puntata di Game of Thrones.
Non parla più di uscire dalla Nato, di nazionalizzare «le imprese strategiche», di ristrutturare – cioè non pagare – il debito pubblico, di riportare la pensione a sessant’anni. Non dice più che Felipe VI «ha l’unico merito di essere il figlio di un monarca scelto da un dittatore»; rimbrotta il sindaco di Barcellona Ada Colau che vuol togliere i ritratti del nuovo re. Fa dire ai suoi che non saranno toccate né le basi militari, né l’ora di religione. Elogia l’esercito baluardo della nazione, e i poliziotti ansiosi «di arrestare i banchieri ladri». La spregiudicatezza con cui passa da toni anarcoidi a invettive populiste è impressionante; ma è tutta dentro un tempo segnato dalla rivolta contro le istituzioni, i partiti, i sindacati, le élites anzi le caste, in Spagna particolarmente predatrici e corrotte a livelli pressoché italiani.
Iglesias non è antipatico, anzi. È un seduttore. Riconosce tutti i suoi interlocutori, o almeno è abilissimo a farlo credere: «Certo che mi ricordo di te…». Si veste al discount e fa in modo che si sappia. Talora scioglie in pubblico i lunghi capelli per poi legarli nel codone, El Coleta. Ha una percezione esagerata di se stesso. Discetta di strategia, evoca Machiavelli e Sun Tsu. Dice di ispirarsi a Gramsci. È amico di Luca Casarini. Cita Toni Negri e Mario Tronti: «Ribellarsi è giusto; ma bisogna farlo bene, saperlo fare bene, imparare a saperlo fare bene, e questo è il compito di una vita». Lo accusano di aver fondato, più che un partito, una setta, dedita al culto di una personalità: la sua. Non Podemos; Pablemos. Alle Europee il simbolo del partito era la sua foto. Il gruppo Mani Pulite ha sporto una querela, certo esagerata, per associazione illecita a fini criminali, appropriazione indebita, corruzione, attentato ai diritti dei lavoratori. Resta il fatto che, nei comuni dov’è al governo, Podemos ha mutuato alcuni vizi del passato: a Rivas, periferia di Madrid, l’assessore ai Lavori pubblici ha affidato ventinove appalti alla cooperativa del fratello.
Nato nel 1978 a Vallecas, periferia ribelle di Madrid, è figlio unico di un professore di storia e di un’avvocata del sindacato che l’hanno chiamato come Pablo Iglesias, il fondatore del partito socialista operaio spagnolo. I genitori votano Gonzalez, che lui ora definisce «moralmente decrepito». Cresce nel mito del nonno paterno, Manuel Iglesias Ramirez, condannato a morte da Franco e graziato in tempo. Rivendica di aver letto Verne e Salgari, come le generazioni precedenti. A 14 anni è già nei giovani comunisti. Frequenta l’università Complutense, la stessa di re Juan Carlos, ma la sua vera scuola è il movimento no global, poi quello degli Indignati. Alla prima lezione da professore fa alzare gli studenti in piedi sui banchi, come nell’Attimo fuggente. Dopo “La Tuerka” conduce un altro talk, pagato dalla tv iraniana: all’inizio c’è lui che sale su una Harley-Davidson e parte rombando con casco e arco indiano a tracolla, al grido di «Attento alla testa, uomo bianco, siamo a Fort Apache!». Se lo contendono altre trasmissioni dai titoli immaginifici: “El Gato al agua”, “El Hormiguero”, “El Cascabel”, “La sexta columna”, “La sexta noche”, “La noche en 24 horas”, “Te vas a enterar”. Spesso canta, talora bene.
La sua ossessione è il linguaggio. Parafrasa Marx – «il cielo non si prende per consenso, si prende per assalto» – e l’allenatore dell’Atletico Madrid, El Cholo Simeone: «Vinceremo il campionato partita dopo partita». Coltiva un lessico fiorito – «l’arma più potente del futuro è la poesia» —, metafore di sua invenzione – «l’era della caverna mediatica» per indicare la comunicazione prima della sua venuta —, citazioni colte e talora sbagliate: «Come scrive Kant nell’Etica della ragion pura…». «Critica della ragion pura», l’ha corretto Rivera. Iglesias è stato prontissimo: «Tu l’hai letto? No? Male».
La sua assicurazione sulla sopravvivenza è lo scontento di un Paese dove uno su quattro è disoccupato e oltre 150mila famiglie hanno perso la casa. Il premier Rajoy tenta di ingabbiarlo in una serie di patti di responsabilità nazionale, contro il terrorismo e per l’unità della Spagna; ogni volta Iglesias va alla Moncloa, sempre in maniche di camicia, ascolta con attenzione, dice no e propone un referendum: sull’intervento in Siria, sull’indipendenza della Catalogna. Insiste su una nuova Costituzione e una nuova transizione democratica, anche se non si capisce bene cosa siano. È per legalizzare gli spinelli: «Io non li fumo, ma mi faccio di rum, che è anche peggio». Gli avversari lo trattano come un matto, ma il suo problema non è quello. Dice Cercas che «Iglesias è senz’altro una persona intelligente. Il suo problema è che non è intelligente come crede di essere».