Corriere della Sera, 3 dicembre 2015
Chi compra il petrolio dal Califfo?
A nessuno fa schifo il petrolio del Califfo. Dunque finisce in Turchia, in Kurdistan, a Damasco e molto più lontano perché a volte è mescolato a quello legittimo. E questo spiega come porti allo Stato Islamico circa 500 milioni di dollari all’anno. Una fetta di quel miliardo di dollari che rappresenta il budget del sedicente Stato Islamico.
Le accuse del Cremlino sulle tre rotte usate dall’Isis per far arrivare il greggio in Turchia sottolineano con clamore e foto aspetti già emersi. Solo che stavolta Mosca personalizza la situazione, coinvolgendo i familiari del presidente turco Erdogan, dal figlio Bilal al genero. Un network che ha incrociato il grande business, con connessioni importanti, all’arte di arrangiarsi di coloro che vivono un’esistenza precaria.
Oltre un anno fa sono emersi dettagli su quanto avveniva a Ezmerin, villaggio siriano, al confine turco. Sotto la frontiera e i campi passavano centinaia di tubature gestite dai contrabbandieri locali. Dozzine di camion provenienti dal Califfato scaricavano il greggio che arrivava all’interno di case ed edifici a Hacipasa, Turchia, dove erano in attesa altri mezzi. Tutto gestito al cellulare e senza la minima preoccupazione delle autorità. Tutti sanno, tutti fanno. Anche perché l’ottanta per cento della popolazione della zona è coinvolto. Il caso di Ezmerin era emblematico, ma non era certo l’unico.
Con il passare del tempo i trafficanti hanno aumentato il numero delle cisterne dirette verso il territorio controllato da Ankara. I serpentoni dei camion erano ben visibili dall’alto: infatti sono stati colpiti dai russi, ma anche dagli americani, come hanno documentato video diffusi di recente. Il Pentagono, che pure oggi difende l’alleato turco, dovrebbe avere molto materiale sull’argomento. In maggio gli americani avrebbero intercettato documenti relativi proprio ai legami tra Isis e Paesi vicini.
Gli oppositori del presidente Erdogan hanno rilanciato i sospetti chiamando in causa Bilal. Sposato, due figli, 34 anni, laurea ed esperienza di lavoro negli Usa, Bilal possiede numerose società. Tra queste ve ne sono alcune che importerebbero l’oro nero via Kurdistan iracheno, per poi piazzarlo sul mercato asiatico (ma anche in Israele). Punti d’appoggio il terminale turco di Ceyhan, sponde a Malta, tante petroliere e relazioni importanti. Un intreccio che, stando ai russi, farebbe gli interessi della famiglia del Sultano.
La Turchia, oltre a smentire ogni responsabilità, può appendersi all’alibi di non essere la sola. Il 25 novembre il Tesoro americano ha adottato sanzioni contro George Haswani e Kirsan Ilyumzhinov. Il primo è un intermediario molto vicino al regime siriano. Il secondo è un imprenditore russo, ex presidente della Repubblica di Kalmikya nonché della Federazione mondiale degli scacchi. Proprio Haswani avrebbe favorito relazioni economiche con gli avversari. Damasco importa energia dall’Isis e in cambio, oltre al denaro, offre consulenza tecnica per gli impianti e benzina di qualità. Non certo per amicizia ma per necessità.
Come per altre attività, anche sul petrolio lo Stato Islamico impone tasse e pedaggi. Pochi i rischi, alti gli introiti. Il racket imbratta molti, fa emergere delle complicità imbarazzanti, mette in difficoltà un Paese dell’Alleanza atlantica come la Turchia ma diventa scandalo quando fa comodo. Contorni ambigui di una crisi dove non ci sono santi.