Mente&Cervello, 2 dicembre 2015
Perché ridiamo? Un’indagine scientifica molto seria
Che cosa succede nel cervello quando ridiamo per una battuta o per una vignetta? Molto. A differenza della risata, che è una sorta di reazione riflessa, l’umorismo è un fenomeno cognitivo ed emotivo di alto livello, che coinvolge componenti verbali, mimico-motorie (come sorriso e riso), emotive, affettive, relazionali e così via. È indotto da una varietà di stimoli, e può avere svariati significati, dall’aggressione più o meno giocosa allo scarico dello stress e forse, secondo un’interpretazione in chiave evolutiva, a segno di qualità del partner nella selezione sessuale. Anche le sue basi neurali quindi sono complesse, e chiarite solo in parte.
Il cervello che ride è stato scandagliato esaminando persone con lesioni cerebrali o malattie che alterano il senso dell’umorismo, e studiando persone sane con l’elettroencefalografia e con l’esame per immagini dell’attività cerebrale mediante la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Un riepilogo di questi studi è giunto di recente su «Nature Neuroscience» da Pascal Vrticka e Allan Reiss, del Center for Interdisciplinary Brain Sciences Research della Stanford University, in California, e Jessica Black, del Boston College di Chestnut Hill, nel Massachusetts.
«Negli ultimi 15 anni gli studi sui substrati neurali dell’apprezzamento dell’umorismo sono stati parecchi, con gli stimoli umoristici più vari, verbali o visivi, di generi che spaziano dal sarcasmo aggressivo al puro nonsense, rilevando sia quali aree cerebrali entrano in gioco sia come cambia la loro attività a seconda che lo stimolo risulti più o meno divertente. Nonostante tanta varietà, gli studi convergono nell’indicare due processi chiave con cui elaboriamo l’umorismo, distinti sebbene interdipendenti: uno cognitivo e uno emozionale», spiegano i tre ricercatori.
► I processi cognitivi
La teoria che ispira gli studi neuropsicologici è quella per cui l’umorismo scaturisce dalla percezione di un’incongruità e dalla sua risoluzione: riconosciamo la presenza simultanea di due elementi incompatibili, la violazione di un’aspettativa o di una norma, e risolvendo il problema, grazie a un cambio di prospettiva, proviamo le sensazioni di divertimento. La componente cognitiva ha quindi a che fare con il rilevamento e la risoluzione delle incongruità. Vista la varietà degli stimoli umoristici, non sorprende che gli studi individuino un’ampia gamma di aree coinvolte a seconda degli stimoli e delle situazioni: ovviamente le cortecce visiva e uditiva, e poi le aree del linguaggio e della conoscenza semantica e, per stimoli che richiedono di considerare pensieri e sensazioni altrui (la cosiddetta teoria della mente) le regioni preposte a questo compito, o quelle dedicate a rilevare gli errori quando l’incongruità ne comporta uno.
Ma, quale che sia lo stimolo iniziale, secondo Reiss alla fine il tutto confluisce su un percorso comune. «Ci siamo convinti che tutti questi meccanismi convergono su un’area fondamentale di rilevamento e risoluzione dell’incongruità, la giunzione temporo-parietale e la sua estensione ventrale nella giunzione temporo-occipito-parietale. Quest’area riceve abbondanti messaggi da sensi diversi, si attiva nei processi che riguardano il self e la teoria della mente, partecipa a rilevare stimoli inattesi importanti per decidere i comportamenti e ha stretti collegamenti con aree fronto-parietali legate all’attenzione e alle decisioni. Sembra quindi nella posizione ideale per cogliere e risolvere le incongruenze».
I due momenti del rilevamento e della risoluzione non sono ancora stati distinti a livello neurale perché sono pressoché simultanei, e la fMRI, che è precisa nel localizzare le attività dei neuroni nello spazio ma non coglie rapide variazioni nel tempo, non riesce a distinguerli. «Forse gli studi con altre tecniche come elettroencefalografia o magnetoencefalografia discrimineranno meglio le due fasi», dice Reiss.
► Meccanismi emotivi
L’apprezzamento dell’umorismo coinvolge poi una componente emotiva, che nel cervello appare legata soprattutto al cosiddetto sistema dopaminergico mesocorticolimbico, e in minor misura ad altre regioni. Queste aree si attivano in situazioni gratificanti e a loro si ascrive quindi il senso di allegria procurato dall’umorismo.
«La natura esatta di queste sensazioni piacevoli però non è del tutto chiara», spiega Reiss. Intanto, gli stimoli più divertenti attivano di più anche le aree cognitive, e quindi la comicità non sembra dipendere solo dal maggiore senso di gratificazione dato dai circuiti della dopamina, ma anche da altre proprietà dell’umorismo. Forse, ipotizza Reiss, la capacità di farci sentire intellettualmente impegnati nella risoluzione della stranezza.
Inoltre il grosso degli studi confronta frasi o immagini divertenti con altre neutre, e non con stimoli anch’essi piacevoli ma non divertenti. Quindi non chiarisce che cosa è specifico della comicità rispetto a una generica gratificazione. Solo due studi recenti degli stessi Vrticka, Black e Reiss hanno fatto questo confronto, sia pure in bambini di 6-12 anni. I piccoli vedevano video che i coetanei avevano giudicato divertenti (per esempio gente che cade correndo), piacevoli ma non comici (come corse in bicicletta, danza o sport), o neutri (comuni scene di vita quotidiana).
Si è visto così che l’umorismo sollecita gli stessi circuiti cognitivi ed emotivi degli adulti, anche se alcuni si attivano di più, mostrando che il meccanismo di apprezzamento dell’umorismo è già in funzione nell’infanzia, sebbene con diversa intensità, e tarato su scene farsesche e non su forme di comicità più intellettuali. Quanto alle specificità dell’umorismo, la differenza rispetto ai generici stimoli piacevoli sta nell’attivazione della giunzione temporo-occipito-parietale, cui si ascrive il rilevamento dell’incongruità, mentre non cambia l’attività dei circuiti della gratificazione. «Probabilmente la differenza è legata alla soddisfazione dello scoprire e risolvere gli elementi incompatibili dell’umorismo, rispetto al senso di piacevolezza di una scena avvincente», spiegano i tre. «Ma ne sappiamo ancora poco, è un punto da approfondire».
► Il ruolo dell’amigdala
Un’altra struttura cerebrale importante nell’umorismo è l’amigdala. La cosa può sembrare strana nella sua visione ancora invalsa di «centro della paura». Ma come titolava quest’estate un post dello storico studioso di questa struttura, Joseph LeDoux, neuroscienziato all’Università di New York – e cantante della band «The Amygdaloids» – «l’amigdala NON è il centro della paura».
Un ruolo nella paura ce l’ha, spiega LeDoux: rilevare le minacce e preparare altre regioni del cervello e del corpo alla reazione. Ma lo stesso fa con altri stimoli legati per esempio alla nutrizione, alla sete o al sesso. In generale, infatti, l’amigdala è una sorta di «rilevatore di rilevanza» che, nell’incessante afflusso di informazioni che riceviamo, seleziona quelle importanti per i nostri scopi. Il valore biologico degli stimoli è dettato in forte misura da aspetti quali l’ambiguità, l’imprevedibilità e la significatività, rimarca Reiss: aspetti spesso presenti nell’umorismo, se consideriamo il suo contenuto di incongruità e sorpresa e il suo valore sociale.
In particolare sembra che il momento in cui l’amigdala si attiva contribuisca a distinguere stimoli comici e non. Lo mostra uno studio presentato nel 2012 al meeting annuale della Cognitive Science Society da Tagiru Nakamura, della Keio University di Fujisawa, in Giappone. Un genere di frasi umoristiche giapponesi presenta due concetti all’apparenza slegati, chiede che nesso ci si vede e infine lo rivela. Ebbene, se l’amigdala si attiva già prima della rivelazione finale la frase è giudicata non divertente, mentre se si attiva solo quando la soluzione viene svelata la frase fa ridere. «Nel momento in cui si comprende il nesso si avverte il picco di rilevanza, e se la comprensione giunge prima della rivelazione finale sta a indicare che l’associazione di idee appare banale e non fa ridere, mentre se giunge alla fine, al culmine dello sforzo cognitivo, risulta comica», spiega Nakamura.
► Differenze individuali
Le neuroscienze hanno appena iniziato a esplorare come cambia la percezione dell’umorismo con fattori come sesso, età, personalità o alcuni disturbi neuropsichiatrici.
Già nel 2005 uno studio di Reiss sui «Proceedings of The National Academy of Sciences», che chiedeva a 20 persone di esaminare decine di vignette e valutarne la comicità, mostrava che, come prevedibile, le strategie generali di risposta sono le stesse nei due sessi. Qualche differenza però c’è: nelle donne si attivano di più alcune aree per il linguaggio e la conoscenza semantica (il giro frontale inferiore) e della gratificazione (il sistema mesocorticolimbico), segno di una più intensa elaborazione esecutiva e linguistica e di una più forte risposta di gratificazione, frutto forse di una minore aspettativa iniziale. Risultati simili sono stati confermati da due studi successivi, negli adulti e in 6-23enni, che indicano come gli uomini abbiano una reattività emotiva più contenuta e ricorrano di più all’elaborazione esecutiva nei lobi frontali.
«La maggiore ricettività delle donne all’umorismo corrobora l’idea della sua funzione nella selezione sessuale, come segno di doti quali intelligenza e creatività. Ma anche questa ipotesi andrà indagata più a fondo», rimarca Reiss. In primis, probabilmente, distinguendo meglio fra i vari tipi di humor. Una distinzione che Arnie Cann e Chelsea Matson, dell’Università del North Carolina a Charlotte, hanno iniziato a fare su «Personality and Individuai Differences» nel 2014.
«Il senso dell’umorismo è citato spesso fra le qualità più desiderate in un partner, e in più culture si è visto che favorisce il successo di un corteggiamento (per esempio le probabilità di farsi dare il numero di telefono) o la qualità della relazione», spiegano Cann e Matson. «Ma si è distinto poco fra i vari tipi di humor. Il nostro studio indica che di solito è giudicato dotato di umorismo, gradevole e socialmente desiderabile solo chi mostra uno stile di humor detto adattativo, ossia teso a valorizzare l’immagine di sé o, meglio ancora, a rafforzare i legami sociali (l’humor affiliativo). Il giudizio favorevole non riguarda invece chi tende a farne usi aggressivi e denigratori». La distinzione però non è ancora stata indagata a livello neurale.
Anche sull’influsso della personalità c’è qualche indagine preliminare. Gli studi cerebrali confermano per esempio che le persone estroverse – che sentono un maggior bisogno di stimoli esterni per attivarsi e tendono quindi alla frequente ricerca di esperienze, e a essere scherzose e di buon umore – sono più responsive in vari circuiti dell’umorismo, ma soprattutto sono particolarmente sensibili agli stimoli che accrescono la gratificazione mediata dalla dopamina, coerentemente con l’idea che siano cronicamente sottostimolate e annoiate e cerchino perciò con insistenza stimolazioni esterne, anche nell’humor.
I pochi studi in età più giovani confermano che già nei bambini tratti come emotività, timidezza e socievolezza modulano l’elaborazione dello humor. «L’apprezzamento dell’umorismo sembra suscettibile alle differenze di personalità lungo tutto l’arco della vita, e varrà la pena di studiare a fondo le traiettorie con cui si sviluppa», conclude Reiss.
Alcuni disturbi mentali come depressione maggiore, autismo e schizofrenia minano l’apprezzamento dell’umorismo, e qualcosa è stato indagato a livello cerebrale. Vari studi mostrano deficit nell’elaborazione dell’umorismo negli autistici, soprattutto nelle forme basate sulla comprensione delle relazioni sociali e dei pensieri altrui. Più in generale però emerge anche una difficoltà a integrare le informazioni cognitive e affettive.
Nel 2012 su «NeuroImage» Rajesh Kana e Heather Wadsworth, dell’Università dell’Alabama a Birmingham, hanno visto che nei giovani autistici ad alto funzionamento il cervello deve attivarsi di più per capire una battuta che per comprendere una frase simile senza doppi sensi, mentre nei non autistici le due situazioni non fanno grande differenza. «Gli autistici elaborano l’informazione ambigua diversamente, attingendo a più risorse, per esempio nelle aree visive, dell’attenzione e decisionali, nello sforzo di risolvere la difficoltà», spiegano. «Inoltre sono più attive aree dell’emisfero destro cui si attribuisce una funzione di comprensione grossolana del linguaggio. L’idea è che, mentre le corrispondenti aree sinistre si dedicano alla comprensione fine di un vocabolo, associandolo a un ristretto gruppo di significati simili, le aree destre ne compiono una codifica grossolana, attivando ambiti semantici meno definiti e più ampi. La maggiore attivazione destra può essere quindi un altro segno della difficoltà di comprendere il significato figurativo della battuta, che obbliga a esplorare ambiti semantici più vasti per darle un senso».
Da questi risultati Kana e Wadsworth traggono varie idee di possibili interventi clinici per aiutare gli autistici, per ora solo a livello di spunti di riflessione su cui ragionare.
► Specificità dell’umorismo
Nonostante il quadro generale sia delineato, molto resta da capire. Prima di tutto che cosa davvero contraddistingue «il cervello che ride» rispetto a esperienze simili. I due studi sui bambini citati, per esempio, hanno iniziato a indagare le specificità rispetto ad altre situazioni piacevoli. Un altro punto da indagare resta l’incongruità: non tutte le situazioni ambigue o incongrue fanno ridere. Che cosa distingue quelle divertenti, allora?
«La comunanza tra le varie esperienze è tanta, vedere le somiglianze è facile, il diffìcile è vedere che c’è di diverso. La sfida è capire se nel cervello succede qualcosa di specifico per l’umorismo, o almeno un suo tratto distintivo. E per ora resta una sfida aperta», osserva Forabosco. Si è visto per esempio un segno elettroencefalografico che riguarda la percezione dell’incongruità e poi la sua risoluzione, ed è fra le cose più specifiche trovate, ma anche questo non è assoluto.
Ori Amir, della University of Southern California, ha indagato un’altra sfaccettatura di questo aspetto. «Trovare una specificità è difficile, perché l’umorismo abbraccia tante componenti, inclusi elementi che aumentano la gratificazione ma non sono strettamente necessari, come il godere dei guai altrui, il senso di superiorità, o le allusioni sessuali. Così è difficile trovare un controllo di uno stimolo umoristico che ne sia l’esatto equivalente, esclusa la comicità. Di solito, per esempio, nello stimolo non umoristico si perde anche l’elemento della scoperta».
Perciò Ori ha usato stimoli, comici e non, scelti con attenzione per non sollecitare queste ulteriori sensazioni, ma accomunati sempre dalla scoperta di una soluzione imprevista. Rivelando su «Cerebral Cortex» un network di regioni che si attiva esclusivamente con gli stimoli umoristici: i poli temporali, la giunzione temporo-occipitale e temporo-parietale (che trovano relazioni tra concetti distanti), e la corteccia prefrontale mediale (per la gratificazione inattesa). Altre aree fra quelle individuate in passato rispondono anche agli stimoli incongrui ma non umoristici. Anche Ori, come molti studi precedenti, trova per esempio che nelle fasi tardive dell’elaborazione dello stimolo si riattivano aree visive o linguistiche, presumibile segno che il cervello torna a esaminare i dati già acquisiti ed elaborati all’inizio per risolvere l’incongruità. Ma queste aree si attivano con tutti gli stimoli incongrui, e quindi non sono specifiche dell’umorismo.
Di qui, Ori avanza un’interpretazione. «Il piacere dato dalla soluzione inattesa può essere la manifestazione di un sistema motivazionale più generale che ci rende piacevole la ricerca e l’elaborazione di un’informazione nuova e riccamente interpretabile».
► Questioni aperte
«Restano molte domande aperte. A partire da come si sviluppa il senso dell’umorismo e come varia con sesso, età, cultura, personalità o intelligenza», osserva Reiss. «Tuttavia, gli studi in fMRI limitano le possibilità di indagine, soprattutto perché si svolgono nelle condizioni artificiose dello scanner. Nuove tecniche di imaging (come la spettroscopia funzionale nel vicino infrarosso) potranno ovviare a questi limiti». Sarà poi essenziale, a suo avviso, distinguere i meccanismi con cui rileviamo l’incongruità da quelli con cui la risolviamo. O distinguere le basi del proto-humor, il senso basilare di divertimento indotto dal gioco fisico o dalla sorpresa nei più piccoli, dai meccanismi più sofisticati dello humor formale che scaturisce dalla comprensione dei concetti e dalle loro incongruità. E occorrerà usare controlli adeguati per differenziare i circuiti che si attivano in risposta a certe componenti dello stimolo umoristico, o alle diverse forme di humor.
«Le operazioni cognitive per “capire una barzelletta” sono diverse a seconda della sua natura, ma le differenze tra le basi neurali dell’una o dell’altra restano poco indagate», spiega su «Frontiers in Psychology» Yu-Chen Chan, della National Tsing Hua University di Hsinchu, a Taiwan. Chan ha indagato tre diversi tipi di barzellette, quelle basate sull’esagerazione, sull’ambiguità e sulle inferenze, constatando alcune differenze, rivelatrici delle strategie cognitive usate per elaborare i vari tipi di comicità. Ma anche in questo ambito siamo ancora agli inizi.
«Sarà importante, infine, studiare quegli aspetti che si stanno dimostrando importanti anche a scopi pratici: per esempio come lo humor favorisce la resilienza e la capacità di affrontare le difficoltà, le sue potenzialità come ausilio terapeutico, o per facilitare le relazioni sociali in contesti come i luoghi di lavoro o i rapporti di coppia», conclude Reiss.