GQ, 2 dicembre 2015
L’uomo che sta ridisegnando New York
Bjarke Ingels è sul tetto di un vecchio edificio di mattoni che sovrasta Lower Manhattan, con il bavero del cappotto nero rialzato e un’aria sbarazzina. L’architetto danese sta girando un film promozionale sulla commissione più importante della sua ancora breve carriera: il progetto per il grattacielo noto come Two World Trade Center. A 41 anni, non manca certo di fiducia in se stesso, e questo video di presentazione lo dimostra in pieno: Ingels ha curato in modo ossessivo ogni parola e ogni immagine.
Tra una ripresa e l’altra, indica un vuoto nel fitto skyline di Manhattan e disegna il profilo di un grattacielo che solo lui riesce a vedere. Da questo punto di vista, il progetto di Ingels apparirà come una serie di sette cubi sovrapposti a mo’ di scala che sale verso il suo monolitico vicino, noto con il nome di One World Trade Center. «In un certo senso, è quasi una rappresentazione fisica dello spirito americano», dice. «Ex pluribus, unum. Dai molti, uno». Se verrà completato, il grattacielo in questione sarà tra gli edifici più alti di New York, l’ultimo dei quattro previsti dal piano generale per la ricostruzione del World Trade Center. L’insieme circonderà le due vasche con cascate concepite come tributo alle vittime degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001. Di quest’ultimo aspetto, però, Ingels non si cura: «Il fine del memorial è di ricordare i morti. Il grattacielo, invece, ha a che fare con la vita della città».
Ingels ama ripetere che l’architettura è «l’arte di trasformare l’immaginazione in realtà». Si vanta di possedere molti talenti – disegnatore, venditore, curatore della propria immagine – ma la sua dote più importante è il dono di saper raccontare: la capacità di costruire una narrazione su necessità pratiche.
I suoi progetti inclinano spesso verso il fantastico. Sta costruendo a Copenaghen un impianto di termovalorizzazione con tetto in pendenza, che verrà usato come pendio per praticare lo sci, e una ciminiera che emetterà un simbolico anello di vapore per ogni tonnellata di anidride carbonica. Per un previsto ampliamento del campus di Google a Mountain View, California, Ingels ha creato, in collaborazione con Thomas Heatherwick, un elaboratissimo complesso di cupole geodetiche che prefigura uno stile di vita incentrato su escursioni, biciclette e programmazione all’interno di un terrarium di vetro illuminato dalla luce del sole.
Finora, il più grande progetto di Ingels – un edificio residenziale a forma di piramide in costruzione a Manhattan, lungo la West Side Highway, all’altezza della 57th Street – è per dimensioni all’incirca un terzo del Two World Trade Center. Con il suo nuovo progetto, Ingels ha immaginato un nuovo ambiente di lavoro all’interno di un grattacielo, che trasformerà la forma verticale e gerarchica in un luogo adatto all’interazione orizzontale. Ora viene la parte più difficile: deve dimostrarsi capace di trasformare questa narrazione affascinante in realtà concreta.
Per realizzare il progetto, l’architetto deve dimostrare il proprio valore a una coppia di ottantenni molto scaltri: il magnate Rupert Murdoch e il costruttore Larry Silverstein, che ha il controllo su gran parte dell’opera di ricostruzione del World Trade Center. Murdoch e Silverstein devono ancora trovare l’accordo per una locazione a lungo termine che servirebbe a finanziare il grattacielo da 4 miliardi di dollari. E se anche le parti troveranno l’accordo, ci saranno altri rischi da affrontare: un mercato immobiliare volatile; il melodramma politico legato alla costruzione sul sito di una sanguinosissima strage; istituzioni spesso irrazionali, come il caso della Port Authority di New York e del New Jersey, il macchinoso ente dei trasporti proprietario del terreno su cui sorgevano e risorgeranno gli edifici del Trade Center.
Per 14 anni questi fattori hanno concorso a rallentare in modo imprevedibile il processo di ricostruzione, azzerando svariate ambizioni architettoniche. Il progetto di Ingels, infatti, ne ha soppiantato un altro firmato da lord Norman Foster. Per sfuggire alla sorte del suo predecessore, Ingels dovrà tener conto delle esigenze talvolta contrastanti di Murdoch e Silverstein, che dovrà vendere la metà superiore del grattacielo come spazio per uffici. E Ingels dovrà riuscirci senza trascurare, nel frattempo, gli altri importanti clienti che di recente hanno inondato di commesse il suo studio che, non senza una certa malizia, è stato chiamato BIG (tecnicamente una sigla che sta per Bjarke Ingels Group).
L’ascesa straordinariamente rapida di Ingels ha suscitato molto rispetto, e qualche invidia, tra i suoi colleghi. Tuttavia, così come una commessa di grande importanza può dar lustro alla reputazione di un architetto, per comprometterla è sufficiente un insuccesso.
Passiamo accanto ai turisti che fotografano la nuova stazione ferroviaria spaventosamente costosa progettata da Santiago Calatrava, che sostituisce un famigerato esempio di architettura senza compromessi. «Nella teoria dell’evoluzione darwiniana, l’animale ha due istinti fondamentali, giusto? Combattere o fuggire», dice Ingels. «E di solito si associa l’innovazione con la tendenza a combattere per la propria posizione. Di fatto, però, nel campo dell’evoluzione è spesso più innovativo il momento della fuga, perché ti costringe a cercare una nuova strada o ad arrampicarti su un albero. Si pensi al pesce che esce dall’acqua e si rifugia sulla terraferma. È così che si scoprono nuovi territori. Nel campo dell’architettura, il momento della scoperta è spesso quello in cui si abbandona la propria posizione e ci si decide a tentare qualcosa di diverso».
La metafora evolutiva è un’elegante razionalizzazione di una spiacevole verità: un architetto deve fare i conti con continue sconfitte. Nel suo manifesto del 2009, intitolato Yes Is More, Ingels scriveva che «per la maggior parte i progetti architettonici finiscono abortiti o muoiono appena nati», calcolando che solo undici dei circa 200 progetti da lui ideati nei primi otto anni di carriera erano stati realizzati. La fama da lui conseguita ha migliorato il rapporto, consentendogli di mettersi d’accordo con clienti danarosi e potenti. Google, in particolare, ha incoraggiato Ingels a dar sfogo alla sua immaginazione. Ingels racconta che una volta, dopo aver fatto presente un problema legato ai parcheggi, Larry Page amministratore delegato di Google, gli rispose: «Cinquanta milioni di dollari dovrei bero bastare a risolverlo». Poi, però, il municipio di Mountain View negò i permessi per il complesso da 230.000 metri quadrati: anche l’azienda più potente del mondo incontra talvolta ostacoli insormontabili.
E comunque BIG riceve ogni giorno nuove commissioni. Nella sola Manhattan Ingels sta lavorando a quattro importanti aggiunte allo skyline sul fiume
Hudson e a un parco ibrido con sistema anti-inondazioni, noto come Dryline, lungo l’East River. A Washington, D.C., sta lavorando al piano generale del South Mall Campus del Smithsonian Institution. Ogni commessa porta lo studio BIG all’attenzione di clienti sempre più importanti, come il proprietario di una squadra della National Football League. «Venendo negli Usa, cinque anni fa, abbiamo potuto ripensare il grattacielo, che è una delle grandi invenzioni dell’architettura americana. Sarebbe stupendo, ora, immaginare un nuovo stadio per il football americano».
Ingels ha fondato lo studio BIG a Copenaghen dieci anni fa. «Ha scavalcato tutti i grandi nomi dell’avanguardia», dice Preston Scott Cohen, docente alla Harvard School of Design, dove anche Ingels ha insegnato. A causa della sua complessità e dei costi, l’architettura più fantasiosa è rimasta confinata ai progetti civici. I palazzi costruiti a scopo commerciale sono ispirati soprattutto a principi utilitaristici. Ingels, invece, vuole che BIG sia «pragmatico e, insieme, utopico» e non vede perché non si possa introdurre l’elemento artistico anche nei palazzi per uffici e negli stadi, quel tipo di progetti che di solito fruttano profitti pantagruelici.
Ingels è un discepolo di Rem Koolhaas, uno dei più grandi teorici dell’architettura viventi. Ha infatti iniziato la sua carriera all’OMA, lo studio di Koolhaas, nel 1998. «Sin da quando l’ho conosciuto, quando era un semplice stagista, ho capito subito che Bjarke era un tipo senza remore», racconta Joshua Prince-Ramus, un altro protégé di Koolhaas. Ingels si è stancato in fretta di lavorare per altri, ma anche mettendosi in proprio ha tenuto a mente la lezione appresa. Quando osserva che lo skyline di Manhattan è «una cruda agglomerazione di tracce commerciali e finanziarie, creative e produttive», si ha l’impressione di leggere un testo di Koolhaas.
I nuovi uffici dello studio BIG si trovano all’ultimo piano di un edificio rivestito in terracotta di inizio Novecento che sorge sulla Broadway, non lontano da Wall Street. Il giorno dell’inaugurazione, Ingels arriva sorridente, mentre giovani architetti di tutte le nazionalità prendono posto alle lunghe scrivanie: «Da dove arriva tutta questa gente?», grida lui. Lo studio ha 170 dipendenti a New York e 100 a Copenaghen. Ingels mi accompagna presso una finestra rivolta a nord, da cui si vede il World Trade Center. «Che visuale epica!», dice. Quando usciamo, percorrendo Greenwich Street, Ingels disegna nell’aria un riquadro e schiocca la lingua a mo’ di otturatore fotografico. «Prova a immaginare: il mio grattacielo sarà lì», dice. «Secondo me, sarà una cosa davvero epica».