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 2015  dicembre 02 Mercoledì calendario

Ritirarsi alla Pisapia

I disegni di una scolaresca in visita coprono le tele antiche alle pareti. Accanto alla scrivania inondata di fogli, il televisore è acceso sul Televideo (forse uno degli ultimi in Italia...). Per terra, la vecchia borsa da avvocato trabocca di carte. «Guardi questo», mi dice Giuliano Pisapia, prendeno da un ripiano il modellino di un camion. «È una delle cose a cui tengo di più: la copia di un compattatore di rifiuti dell’Amsa, come quello che abbiamo donato in Libano, due anni fa, all’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi».
Dalla finestra spalancata su piazza San Fedele entra il caldo di un sabato d’inizio novembre, anomalo per Milano. È qui che bisogna essere oggi: in questa stanza di Palazzo Marino, disordinata come un ufficio in attività; nel centro di questa città che ha ritrovato orgoglio, bellezza e il ruolo di capitale morale. Merito di qualcosa che un anno fa, di questi tempi, nessuno avrebbe voluto nemmeno veder dipinto – l’Expo – e di un modello di amministrazione e di comportamento che ha restituito fiducia nella politica. Al punto che la decisione del sindaco di non ricandidarsi a fine mandato, fra sette mesi, è stata accolta da molti con sofferenza, come un’opportunità mancata. «Tutti, però, sapevano che sarebbe andata così. L’avevo annunciato nel 2011, quando mi presentai alle primarie del Pd, ma in pochi mi credevano. Perché in pochi lasciano i posti importanti», sottolinea Pisapia.
Ed è proprio questa la differenza, prima che nel funzionamento dei servizi durante i giorni di Expo, nella riapertura della Darsena o nell’organizzazione di migliaia di eventi per cittadini e turisti: negli uomini (e nelle donne) e nelle loro scelte, piccole e grandi. Per esempio, quella di non regalare più i biglietti della “prima” della Scala, ma di metterli in vendita e destinare i fondi a iniziative di carattere sociale e progetti di cooperazione internazionale. «Così sono riuscito a recuperare quasi 220mila euro, ma lei non sa quanta gente mi chiede ancora di entrare gratis il 7 dicembre».
Sindaco, si dice che Milano è rinata grazie all’effetto Expo, ma c’è stato anche un effetto Pisapia?
«Sono il primo a criticare l’idea di un uomo solo al comando. Credo nella squadra; nella capacità di una città intera, per esempio, di ribellarsi ai black block, il primo maggio. La politica, per me, è servizio, volontariato, non interesse personale; vedo ancora tante persone che la fanno perché ci credono. Il mio principale collaboratore è un maestro elementare che continua a venire a Palazzo Marino la sera, il sabato o la domenica, ma ha voluto continuare a fare il suo mestiere, essendo amatissimo da alunni e genitori. C’è stato un periodo di brutta politica, considerata una cosa sporca, ho provato a dimostrare il contrario».
Come si può cambiare questa idea negativa della politica?
«Con la sobrietà personale e con l’esempio della presenza quotidiana».
È ancora convinto, come aveva dichiarato un anno e mezzo fa a GQ, che fare il sindaco è uno sport estremo?
«Abbastanza. Quando facevo l’avvocato, ho visto tanta gente perbene andare incontro a guai enormi (e in Italia è sufficiente ricevere un’informazione di garanzia per rovinarsi la credibilità). Credo di aver dimostrato che intorno alla passione di una persona si può ricostruire l’entusiasmo di una coalizione».
Come ci è riuscito?
«Con la concretezza. Ho ascoltato le ragioni degli altri, ho studiato, approfondito; poi, di fronte alle decisioni, sono stato determinato. Meglio rischiare di sbagliare una scelta, e avere il coraggio di ammetterlo, che restare immobili. Conosco troppe persone che, nel dubbio, non fanno niente: io cerco di superarlo».
Una determinazione silenziosa...
«Il tono di voce è importante. Deriva dal fatto che credo in quello che dico. In giunta non ho imposto un voto. Una sola volta un assessore ha detto: “Ho dei dubbi, ma se lo dice il sindaco...”. No, non ci siamo».
Mai un urlo, uno scontro, davvero?
«Le urla ci sono state, ma non mie. Quando è capitato, ho detto: “Io vado fuori”. Qualche giorno fa, uscendo da un evento pubblico, una ragazza mi ha chiesto: “Perché non si ricandida?”. Per non ripeterle le cose che ho detto mille volte ai giornalisti, le ho mandato un bacio con una mano e lei lo ha scritto su Facebook».
Non pensa di aver annunciato la sua decisione con troppo anticipo?
«Pensi se lo avessi detto durante Expo o in queste settimane, mentre si preparano le primarie. No, ho scelto il momento giusto. Qualcuno teme che, senza di me, la coalizione possa indebolirsi. In questi anni, invece, ho visto maturare molte persone che possono dare prospettiva. Il che non significa che abbandono la città: continuerò a occuparmene, pur senza un ruolo istituzionale. Sono troppo innamorato di Milano; ci ho messo l’anima, il cuore, la vita».
Se potesse, non lo rifarebbe?
«Al contrario, sono molto contento».
Lo pensa anche sua moglie? Chi è più stanco dei due?
«Da un punto di vista fisico, il più stanco sono io. Cinzia (Sasso, ndr), che ha dovuto lasciare il lavoro di giornalista a Repubblica per evitare incompatibilità, inizialmente ha condiviso a malincuore la mia scelta, ma in questi anni è sempre stata al mio fianco».
Il momento peggiore?
«Durante l’ultima esondazione del Seveso. Ogni venti minuti ricevevo un sms con il livello del fiume. Finché è arrivata una bomba d’acqua. Siamo andati nella centrale operativa della polizia locale da dove si poteva vedere tutta la situazione in diretta, e mi è venuto da piangere».
Che cosa le ha insegnato Milano?
«Che non esistono steccati. Avendo sempre rivendicato la mia appartenenza alla sinistra, pensavo che alcune categorie avrebbero creato ostacoli, invece tanti imprenditori sono stati al nostro fianco per realizzare 48mila eventi in 5 mesi: con Expo in Città abbiamo creato un precedente che d’ora in poi sarà tra le condizioni per ospitare le prossime edizioni».
Ha un rammarico, un progetto che non ha portato a termine?
«Sognavo di restituire alla città il Lirico, un teatro storico. Ma tra ricorsi al Tar e residui di amianto (per cui 4 ex sindaci sono stati indagati per 7 morti alla Scala, ndr), i lavori partiranno a gennaio e non finiranno prima di un anno. Spero che il mio successore voglia dare continuità. Poi avrei voluto ridurre un po’ di burocrazia, ma questo non dipende solo da me».
Per governare Milano, c’è bisogno di un manager o di un politico?
«Non di un manager, ma di una squadra. Della mia fanno parte sei assessori che non avevano alcuna esperienza politica. Ma quando alla Scuola metti l’ex preside più amato della città e alle Risorse umane la responsabile del personale di una multinazionale e la maggiore esperta sul modo di conciliare tempi di vita e di lavoro, la competenza rimedia a qualsiasi mancanza».
Ha già pensato a cosa farà il primo giorno, quando non sarà più sindaco?
«Non ancora. Ho davanti altri sette mesi delicati: con una città in un momento magnifico, ammirata da tutti, devo mantenere la massima attenzione. Le faccio un esempio: i trasporti pubblici; la sfida è conservare il livello dei servizi offerti durante Expo. Certo, mi riprenderò un po’ la vita. Da cinque anni non vado al cinema, vedo i miei fratelli solo per le feste comandate. Non che prima, da avvocato, non avessi giornate difficili, ma dopo un processo importante potevo non pensare a nulla per un paio di giorni. Adesso, ogni mezz’ora c’è una telefonata, una preoccupazione».
Tornerà a leggere i suoi Maigret?
«Ho letto poco, in questi anni, rispetto alle mie abitudini. Solo libri su Milano e sulle Esposizioni universali, ma anche trattati di diritto amministrativo. Un giorno, per affrontare il problema dei 2.300 licenziamenti alla Sea Handling, ho scoperto di avere una nipote, peraltro molto brava, che aveva scritto un libro sugli aiuti di Stato: non avevo avuto il tempo di saperlo».
Essere sindaco della città della moda ha cambiato il suo stile?
«Nel linguaggio dei discorsi istituzionali, più che nell’abbigliamento. Ho rinunciato ai ringraziamenti di rito. A un convegno di oncologi sono partito dicendo: “Ho conosciuto alcuni di voi in momenti per me molto difficili, potete immaginare”. Anche questo rende la politica più umana».