GQ, 2 dicembre 2015
A pranzo con Giuseppe Sala, a Milano naturalmente
Lei non ha un’identità di sinistra: com’era da ragazzo? «Ho sempre votato Pd, e prima Ds e Pds». Prima ancora? «Pci». Davvero? «Davvero». E i suoi genitori? «Mio padre aveva la tessera della Dc». Litigavate? «C’era una forte dialettica». In che anno si iscrisse all’università? «Nel 1977, alla Bocconi». È l’anno degli indiani metropolitani. «Non ho frequentato quell’estremismo. Ho avuto altre irrequietezze». Colonna sonora? «Il programma radio imperdibile era Supersonic. Lo ricorda?». Certo: Supersonic Dischi a Mach2. «E poi Radio Milano Centrale con Mario Luzzatto Fegiz. Sono cresciuto con i Doors, i Pink Floyd e i cantautori italiani, a cominciare dal De Gregori di Rimmel. E la sera c’era Gaber al Carcano».
Libri? «Prima i russi, poi scoprii gli americani». Kerouac? Salinger? «DeLillo, Roth...». Quale immagine riassume quegli anni? «Il cadavere di Moro rannicchiato nel bagagliaio dell’auto». Perché scelse proprio la Bocconi? «Per scappare».
Lo hanno festeggiato come “il bocconiano dell’anno” e Giuseppe Sala ha raccontato ai 500 invitati la storia di «un brianzolo che la Bocconi ha emancipato». Gli rammento che il milanese Oliviero Toscani dice, per paradosso, che bisognerebbe far scegliere ai condannati: o la prigione o la Bocconi. «L’ho letto. È bravo e divertente, ma tutte le scuole d’eccellenza hanno i loro detrattori d’eccellenza».
Voi bocconiani sembrate tutti uguali. «A me pare che siamo tutti diversi». Il manager bocconiano mangia poco, va in palestra, scia, ha la barca a vela... «Sono bocconiano. E il bocconiano si controlla, non coltiva dettagli eccentrici, dalla Bocconi non vengono fuori, come da Cambridge e da Oxford, anche cantanti, attori, artisti e perfino spie». Dunque si iscrisse alla Bocconi per non diventare un mobiliere di Varedo, come suo padre Gino? «La Bocconi fu il mio Infinito oltre la siepe, e fu la mia fortuna. Sono cresciuto in un borgo dove le case si somigliavano tutte: il giardino, il cancello, l’azienda di famiglia».
Cosa ricorda degli anni di Varedo? «La voglia di andarmene. Quando mio padre morì, vendetti il mobilificio Sala a un’azienda concorrente, con il patto che avrebbe assunto i trenta dipendenti». Com’è oggi Varedo? «Non ci sono più tornato. In fondo la mia è la storia di tutti i provinciali d’Italia». Di quei provinciali che ce l’anno fatta. «“Una vita in progress”, ha scritto di me il suo collega Carlo Verdelli».
Ora il suo nuovo centro di gravità è la politica? Sala ride: «Davvero lo faccio per servizio. E non mi piace per niente stare tra i commissari, i prefetti e i magistrati che diventano classe politica». E il nuovo grigio italiano, il colore del funzionario. «Penso che la politica dovrebbero farla i politici».
Sala ride a labbra chiuse. Al massimo le socchiude quando la risata dovrebbe scoppiare e basta. Per strada la gente gli esprime passioni misurate, lo riconoscono, lo salutano, ma non è il bagno di folla, non c’è la seduzione per incantamento del leader popolare, Sala non ha l’affabulazione e la sicurezza ostentata di Renzi: «Berlusconi direbbe che non ho il quid». Montale, nel 1946, scrisse di sé: «un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo». Il quid può essere mancato anche per eccesso: «Non sono certo l’uomo della demagogia di piazza».
All’Expo si è trovato circondato da inquisiti, arrestati, condannati, gente con il quid di troppo del mascalzone, un imponderabile quid di corruzione. Pisapia proprio a GQ disse che le amministrazioni locali «sono attività ad alto rischio» e «fare il sindaco è uno sport estremo».
Ricordo a Sala che molti pensano che la Procura concesse una tregua “istituzionale” per aiutare l’Expo: «Be’, in Procura non sono uno sconosciuto. Quando ero in Pirelli, il pm Greco mi interrogò per sette ore». Fra Pirelli e Telecom è stato per 18 anni accanto a Tronchetti Provera: «Ci siamo lasciati perché, diciamo così, non andavamo più d’accordo, e gliel’ho detto». Lei confessò che guadagnava troppo: due milioni l’anno, più sei milioni per andarsene. «Cifre eccessive, certo, ma figlie di quel mondo e di quegli anni». Il sindaco di Milano guadagna poco. «I guadagni del passato mi mettono al riparo».
Quando lasciò la Telecom e andò a fare il direttore generale del Comune per il sindaco Letizia Moratti le misero una cimice sotto il tavolo. Era il tempo di Giuliano Tavaroli. La spiava lui? «Non l’ho mai saputo». Ma qualche idea se l’è fatta? «Inseguendo i sospetti si diventa acchiappafantasmi».
Dicono che lei piaccia a Berlusconi. «È venuto all’Expo. Abbiamo mangiato insieme, e scherzato. I rapporti sono cordiali». Con Ermolli? «Rapporti più intensi». Salvini ha detto: «il candidato c’è già, è Sala». «Una battuta. Era consigliere comunale quando io ero direttore generale del Comune: mi ha visto lavorare».
E la Moratti? «Abbiamo mantenuto rapporti amichevoli». Vi parlate spesso? «Per nulla. Non mi consiglio con lei». Eppure Sala ha di Milano un’idea morattiana di città-Stato: «Attrarre capitali internazionali e proporre scambi, riattivare i canali dell’Expo». A scapito dell’ingrato compito dell’amministrazione ordinaria? Il traffico per esempio. «Pisapia ha fatto bene». Le case? «Bisogna far ripartire l’edilizia, magari cominciando dai terreni attorno all’Expo». Le società partecipate? «Privatizzare quel che si può: la Sea, l’Atm...». I trasporti? «Sotto il controllo di una sola autorità». L’acqua, alla quale ha dedicato un libro? «Riaprire i Navigli sarebbe bellissimo». Il Campus che nascerà sul terreno dell’Expo? «Studenti internazionali, soprattutto asiatici».
Primari e-sì-primarie-no-primarie-addomesticate... Qualcuno pensa che il successo dell’Expo le ha dato alla testa. «Sono molto resiliente» dice, e mentre spiega cosa significa «aver vinto lo stesso tumore maligno che aveva ucciso papà», fa scorrere la mano sinistra lungo il braccio destro come fanno i Rapcore cantando Mi scivola addosso. Quasi venti anni fa, all’istituto di Veronesi, lo chiusero «in un camera sterile per 27 giorni» per sottoporlo al trapianto di cellule staminali. «Ero alla Pirelli, il più giovane capo azienda d’Italia» e dunque «forse, allora sì, ero ubriaco di successo». E ride, ovviamente; a labbra chiuse, mentre scandisce la parola «linfoma» come; faceva Vittorio Gassman quando nell’Uomo dal fiore in bocca scandiva «epitelioma» e poi diceva: «E la vita perdio al solo pensiero di perderla...».
Figlio unico, tre volte sposato, niente bambini. «Con Dorothy stiamo insieme da quattordici anni». Dorothy è figlia di De Rubeis – “Don Tullio” – che fu per 14 anni sindaco Dc dell’Aquila, ma è cresciuta a Roma e ha studiato a Bologna e Londra. Lui è del 1958, lei del 1969. Vivono a Brera: «Lei è avvocato: diritto finanziario in un grande studio americano».
La sera di che parlate? «Mai di lavoro». Non avete pensato di adottare? «Ne abbiamo molto discusso ma, alla fine, abbiamo scelto di non farlo». Cattolico? «Quando ci riesco. Mia madre, che a 85 anni è molto arzilla, ha una fede straordinaria, molto lombarda». Anche lei è mammone? «Confesso di sì. Adoro mia madre». Le somiglia? «Fisicamente sono una copia di mio padre che aveva però un carattere debole, tendeva alla depressione. Io ho il carattere di mia madre: mi sveglio ogni mattina allegro e combattivo». A vederla non si direbbe. «Perché non mi metto in mostra».
È per il carattere che lei è guarito dallo stesso tumore di cui suo padre è morto? «La medicina da allora ha fatto molti progressi, ma non ha ancora inventato il farmaco per guarire da se stessi. Vede, il tumore è il fallimento di un corpo. Ma è resilienza trasformarlo in un successo». Come l’Expo? «Come l’Expo».