Gentleman, 2 dicembre 2015
Adriano Giannini è tornato a suonare la batteria
Una vita scandita dal ritmo del suo strumento preferito, quella batteria acustica che recentemente, e per la gioia dei suoi vicini di casa, è tornato a suonare. Adriano Giannini, 44 anni, oggi si può definire uno dei migliori attori del panorama internazionale. Ma la sua gavetta è stata lunga, dura e senza scorciatoie, nonostante l’essere indiscutibilmente figlio d’arte. Papà è quel personaggio mitologico che si chiama Giancarlo Giannini; la madre, Livia Giampalmo, una delle più grandi doppiatrici italiane (la preferita di Federico Fellini). «A 18 anni, i miei genitori hanno detto: vuoi fare questo lavoro? Quella è la porta, buona fortuna». E così è stato: 12 anni come assistente operatore, «perché non volevo fare l’attore, ma il regista». Anni che gli hanno insegnato il rispetto per il lavoro. Fatti di cinema tosto, ritmi massacranti, sotto la direzione di registi come Giuseppe Tornatore, Ermanno Olmi, Anthony Minghella. Poi la svolta: nel 2001, il regista Maurizio Sciarra lo vuole come protagonista del film Alla rivoluzione sulla due cavalli. L’anno dopo, Madonna e Guy Ritchie lo prendono per Swept away, il remake di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, nella stessa parte che rese indimenticabile il padre, nel 1974, per la regia di Lina Wertmüller. Da allora, ha lavorato con tutti i grandi. Paolo Sorrentino, in Le conseguenze dell’amore; Steven Soderbergh, in Ocean’s Twelve; Claudio Noce, in La foresta di ghiaccio. Oltre ad avere prestato la voce come doppiatore a Joaquin Phoenix, Jude Law, Matthew McConaughey. Gentleman lo ha raggiunto durante le riprese di un nuovo serial tv, in onda a febbraio su Rai Uno, sulla vita di Boris Giuliano, il capo della squadra mobile di Palermo, assassinato da Cosa nostra nel 1979. «E sempre su Rai Uno, il 2 dicembre, sarò anche nella fiction Limbo, di Lucio Pellegrini».
Iniziamo dal cinema, la chiamano due dei suoi registi preferiti, Bernardo Bertolucci e Tim Burton, ma nelle stesse date. A chi dice sì?
«Anche se Big Fish di Burton è uno dei film che ho più amato ultimamente, penso che sceglierei Bertolucci.
Che cosa ne pensa delle recenti polemiche su Cinecittà?
«Teatri di posa con quella storia, all’interno della città di Roma, con potenzialità infinite. L’abbiamo abbandonata. Non so chi abbia sbagliato. Mi piange il cuore. Ci sono entrato come assistente operatore. Le notti le passavo nei laboratori di sviluppo e stampa. Le giornate, a veder girare Francis Ford Coppola, Ettore Scola, Mario Monicelli. Con mio papà, da ragazzetto, ero andato sul set di La città delle donne, c’era Federico Fellini in mezzo a Lunapark, elefanti, nani e ballerine. Adesso in quegli studi girano Il grande fratello e al massimo qualche fiction.
Che cosa le ha detto Fellini?
«“Carino il bambino, ma adesso fuori dal set...”. Poi mi ha dato una scoppola sulla testa. A mia madre faceva doppiare qualsiasi cosa, anche il rumore del semaforo di notte. “No, fammelo tu il semaforo...”. Oppure il cagnolino che doveva abbaiare nel sottofondo. E mia madre: “Bau bau bau”. Ma era Fellini, come si faceva a dire no?».
Ha un attore di riferimento?
«Quelli che hanno inventato la recitazione moderna: Marlon Brando, James Dean e, ultimamente, Sean Penn».
Che cosa invidia a loro che lei non ha?
«La possibilità di lavorare per un mercato molto più vasto. Però si sta parlando di miti, io non sono un mito».
Non si butti giù così... Il film che avrebbe voluto girare o interpretare?
«Toro scatenato, di Martin Scorsese».
Qual è stato il suo più grande successo?
«Lo devo ancora realizzare: andare a vivere al mare, come in queste foto».
E il fallimento più grande?
«Ha a che vedere con la sfera sentimentale. Non ho capito cose che avrei dovuto capire».
C’è sempre tempo Giannini, è del 1971... La prima persona che ha creduto in lei sul lavoro? Escludiamo i familiari, che sono un po’ ingombranti.
«Non mi hanno aiutato per niente. A parte mia madre che, quando finii la scuola di recitazione, mi prese come tuttofare in un suo film. La mia famiglia non ragiona in questo modo e neanch’io. Devo molto a Maurizio Sciarra, che mi scritturò per il mio primo film. E poi Guy Ritchie e Madonna, che mi presero per il remake di Travolti da un insolito destino, contro il parere di tutti, persino della casa produttrice. Il protagonista doveva essere Antonio Banderas. Poi andò come andò, critiche su critiche, ma da lì ho iniziato a farmi conoscere.
Il momento più imbarazzante che ha vissuto su un set?
«Durante le riprese di Alla rivoluzione sulla due cavalli. Nella prima scena dovevo entrare nudo in un vasca da bagno. Già ero abbastanza in soggezione. Ma a peggiorare il tutto faceva anche un freddo allucinante. E il freddo, in certe situazioni, non aiuta un uomo nudo. Mi avevano detto che non si sarebbe visto niente. E da ex operatore sapevo bene che era una bugia».
Nel 2004 ha recitato in Ocean’s Twelve. Chi l’ha colpita di più?
«Conoscevo già Matt Damon perché con lui avevo girato, come operatore, Il talento di Mr Ripley. Mi ha preso in giro tutto il tempo. Anche George Clooney. Il primo giorno ha detto: “Guarda Adriano che sono un tuo fan”. Ridevo come un matto».
Si dice che Adriano Giannini sul set sia un po’ teppista. Conferma?
«Sono super professionale. Ma per stemperare la tensione faccio molti dispetti, questo è vero».
L’ultimo che ha fatto?
«Mentre stavo girando una scena particolarmente drammatica della serie In treatment, Barbora Bobulova, che sul set è mia moglie, doveva mettere una mano proprio lì, sopra ai pantaloni... Allora io, d’accordo con il regista Saverio Costanzo e tutti gli altri, prima di girare mi sono infilato un’enorme banana. Ma lei non se n’è accorta e ha continuato a recitare».
Lei e Saverio Costanzo (figlio di Maurizio Costanzo), in comune avete l’ingombrante presenza di due padri che sono mostri sacri...
«Ci siamo capiti al primo incontro. Forse perché abbiamo fatto percorsi simili. Io sono figlio d’arte, però a 18 anni ho iniziato una gavetta lunghissima che mi ha insegnato il rispetto per il lavoro. Questo s’impara dai 18 ai 25 anni. Dopo non c’è più speranza. Anche Saverio è andato fuori casa giovanissimo. Si è trasferito a New York, viveva in un postaccio. Studiava, faceva cortometraggi, scriveva. Ha preso anche lui le distanze dalla sua famiglia e ha provato a cavarsela da solo. Questo oggi si riflette nel suo modo di lavorare. Ha la concretezza e la grandezza di chi ha combattuto.
Altri grandi con i quali ha lavorato?
«Paolo Sorrentino, un regista che infonde ai suoi attori calma e serenità. Emir Kusturica, uno degli ultimi personaggi mitologici del cinema contemporaneo. Valeria Golino, magico esemplare di essere umano e attrice incredibile. Andrea Camilleri, che mi ha permesso di trarre la sceneggiatura da un suo racconto per il cortometraggio Il gioco, con il quale poi ho vinto il Nastro d’argento, il Giffoni Film Festival e altri importanti premi a New York».
Un paio di mesi fa Gentleman ha intervistato suo padre. Fra le altre cose, ci ha detto che lui spesso viene fermato da vecchiette che lo scambiano per Tognazzi, Gassman, Mastroianni, e che lui, invece di offendersi, firma autografi a loro nome. A lei è mai successo?
«Anche l’altro ieri. C’era uno che mi guardava e diceva: “Ti conosco, ti conosco, tu sei... Alessandro, anzi no, tu sei Vittorio Gassman”. Ma ridevo troppo, non sono riuscito a firmargli l’autografo».
La verità: ha mai provato il discorso come vincitore di un Oscar?
«Per scherzo tante volte. Però ho pensato seriamente alla sensazione che devono provare quelli che si sono trovati là sopra».