D - la Repubblica, 28 novembre 2015
Fare i soldi (e cambiare il mondo) con la petizione online perfetta
Appollaiata su uno sgabello nel centro di un grande loft a Chelsea, Roberta Kaplan, l’avvocatessa americana che ha vinto alla Corte suprema la battaglia per il diritto delle persone dello stesso sesso a sposarsi, parla per 90 minuti davanti a un pubblico ristretto che la segue incantato. Seduta in prima fila, una donna minuta dai lunghi capelli biondi che porta un allegro abito a fiori è la padrona di casa dell’evento: Jennifer Dulski, dal gennaio 2013 presidente e amministratore delegato di Change.org., la start-up fondata da Ben Rattray in Delaware che ha inventato le petizioni online per cambiare le cose in politica, nella società, nel business. Una piattaforma da 100 milioni di utenti, utilizzata anche da Amnesty International o dalla Humane Society, e diventata una potenza globale presente anche in Italia.
L’incontro newyorchese con Kaplan rappresenta anche lo sviluppo più recente di Change.org: la volontà di portare a contatto diretto con il pubblico personaggi di rilievo il cui attivismo sia di ispirazione per la mobilitazione online. «Chiunque può dare il via a una petizione, ma per avere successo una raccolta di firme deve avere dietro prima di tutto una storia personale convincente. Come quella di Roberta Kaplan», spiega Jennifer.
È seduta davanti a una tazzona di tè in un bar: qui per qualche minuto può parlare senza essere interrotta dai messaggi delle oltre 300 persone che lavorano in tutto il mondo per la sua organizzazione. Oltre a una storia personale, prosegue, sono due gli altri elementi chiave: «Le nostre petizioni hanno successo quando si rivolgono a una persona o a un nucleo specifico che abbia un ruolo decisionale in materia. E quando a mettere il moto le cose è una rete fitta e numerosa di persone interessate a una causa. A volte ci chiedono se Change.org non sia una scorciatoia, perché sembra troppo facile cambiare il mondo semplicemente aggiungendo una firma a una petizione. Ma i risultati parlano chiaro». E vanno, meticolosamente elencati alla voce “vittorie” sul sito, dai 2 milioni e 200mila firme che nel marzo 2012 contribuirono alla incriminazione (seguita dalla condanna) del vigilante che aveva sparato al diciassettenne di Sanford Trayvon Martin, alla campagna vincente per far introdurre alla Universal messaggi più ecologici nel film per ragazzi The Lorax (57mila firme), alla battaglia tutta italiana per lo stop al vitalizio degli ex parlamentari condannati per mafia e corruzione (promossa da Libera e Gruppo Abele, 522.991 firme).
Sia chiaro: non sono né Dulski né il suo team a decidere quali petizioni meritano di andare avanti. L’organizzazione si limita a verificare che la causa proposta non sia in contrasto con principi di base che escludono per esempio l’odio razziale, la violenza, il bullismo e la diffamazione. «E sappiamo che non basta una petizione per cambiare il mondo. Per esempio i Boy Scout hanno aperto la porta ai gay dopo circa 200 petizioni nell’arco di oltre diciotto mesi. Ognuna si rivolgeva a una persona diversa che poteva avere un impatto sulla decisione finale di mettere fine alla discriminazione».
Jennifer Dulski parla con entusiasmo del suo lavoro e aggiunge che calza alla perfezione con la sua personalità. «Scartabellando fra vecchi blocchi degli anni dell’università ho trovato un appunto in cui scrivevo che avrei voluto diventare “un guru nel mondo del business”. Non so bene cosa intendessi allora, ma in un certo senso posso dire di aver realizzato il mio sogno». La prima tappa, curiosamente, è stata quando Jennifer scelse di non andare in Italia. Appena finita la scuola le si era presentata l’opportunità di un trasferimento per immergersi nella storia dell’arte. «Scelsi invece di andare a lavorare in Amazzonia. Volevo mettermi alla prova con qualcosa di più difficile. Ed è il consiglio che dò sempre ai giovani: cosi ci si trasforma in veri leader». A 20 anni in Brasile ha fatto decollare la società non-profit Summerbridge, passando poi al settore tech dove per quindici anni ha lavorato nei più grossi brand di Silicon Valley, Google compresa. Ottimismo e determinazione, dice, le vengono in gran parte dall’esempio della madre. A meno di 30 anni rimase con il volto semiparalizzato ed ebbe difficoltà a trovare un impiego. «Cinquanta colloqui e cinquanta rifiuti», ricorda Jennifer. «Cosa le diede la forza di andare a quel cinquantunesimo colloquio da cui nacque una carriera durata anni? Lei mi ha insegnato a non desistere mai».
Ma Dulski sa anche che ai vertici di ogni organizzazione ci sono momenti di dubbio, periodi in cui non basta condividere le difficoltà con la propria squadra. È per questo che Jennifer è entrata a far parte di YPO, la Young Presidents’ Organization, rete mondiale di 22mila giovani capi azienda di 125 paesi. «YPO non è aperta a tutti, solo ai leader sotto i 45 anni. I loro forum sono di grande aiuto, perché essere ai vertici a volte è una posizione di grande solitudine professionale».
Una delle sfide che la Dulski si trova ad affrontare è come far crescere Change.org evitando che sia troppo “americanocentrica”. «Mi aiuta essere cresciuta bilingue, parlo francese da quando avevo cinque anni. E adesso, anche quando giro il mondo per lavoro, almeno una volta all’anno mi porto dietro marito e figli per vivere insieme l’esperienza di un paese diverso dagli Stati Uniti». Una spinta al “globale” che si riflette anche nel management di Change.org: il consigliere legale è cresciuto in Francia, il capo finanziario viene dall’India, il vicepresidente del settore ingegneristico è inglese, il capo del personale è cresciuto in Sud Africa. «Il nostro esecutivo è non americano al 50 per cento perché puntiamo sia sulla diversità geografica che sulla diversificazione di uomini e donne». Un tema caro a Jennifer, quest’ultimo, perché si è scontrata in carriera con due elementi apparentemente a sfavore nel mondo competitivo del business: essere donna e fisicamente molto minuta. «Sono alta un metro e 52», ride, anche in questo campo a insegnarmi è stata mia madre: lei era un metro e 44». Su una parete nel suo ufficio di San Francisco, Jennifer ha appeso un cartello scherzoso: «Size doesn’t matter», le dimensioni non contano. Una battuta, forse, anche su Change.org: i suoi 100 milioni di utenti in 196 Paesi del mondo hanno lanciato o firmato petizioni 585 milioni di volte, ma non è solo la grande quantità di firme a determinare una vittoria. Ci vuole la convinzione che un cambiamento è sempre possibile. Detto con il motto che campeggia su un altro cartello in ufficio: «Il bicchiere in realtà è sempre pieno: anche se per metà d’acqua e metà d’aria».