il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2015
«Il mio "Decamerino", una vita di teatro e sonetti a metà tra finzione e realtà». Proietti parla del suo libro
Le scritte sui muri in odor di blasfemia: “Dio c’è / o ce fa”, quelle sgrammaticate sulle pareti di un dietro le quinte: “Si preca di non rimanere oggeti de valore nel cammerino”, le altre – tantissime – parole lasciate in copioni abbandonati, pause e viaggi di Gigi Proietti, “rifugiato poetico” del novembre 1940. Quasi 50 film, decine di spettacoli teatrali da attore e da regista, ora anche un libro: Decamerino, Novelle dietro le quinte in cui tra un sonetto e un immaginario spettacolo messo in piedi da un clochard alla vigilia del Giubileo, Proietti racconta episodi, scherzi, geografie urbane in movimento e maschere pronte a tutte le occasioni. Biografia, breviario, raccolta, teatro nel teatro, paradosso: “È un libro tra finzione e realtà. In mezzo al falso c’è qualcosa di indefinibile: il vero”.
In Decamerino ci sono i ricordi di oltre 50 anni di palco.
Il tono alto è mascherato nella leggerezza, la commistione di generi assoluta. L’ho scritto come uno spettacolo teatrale.
Con una struttura aperta?
Saltabeccando tra il colto e il popolaresco per evitare il compiacimento. Il più temibile dei tranelli.
Il libro non è compiaciuto. È vitale e a tratti malinconico.
Perché parla di un universo che non c’è più e di un mondo che ha lentamente perso il proprio linguaggio. A quel mondo perduto però parlo al presente. La malinconia mi piace, la nostalgia no.
Ci sono gli inizi, i teatri nell’Agro pontino, le sarte con cui attendere il debutto.
La sarta è vera e sta con me da più di 30 anni. Dentro Decamerino c’è la mia vita e della mia vita il camerino è stato un pilastro.
Cosa ha rappresentato?
Un luogo della mente, dell’attesa, un’appendice della casa. Un posto per immaginare apologhi e invettive ironiche.
In Decamerino, parallelamente ai ricordi, corre la storia di “Giubbileo”.
Un drop out che sogna di riunire tutti gli homeless del pianeta per far conoscere la città invisibile, quella che nessuno vuole vedere, con una rappresentazione sacra da tenere durante il vero Giubileo. Ci pensavo da 20 anni. Avevo anche il titolo. Un titolo che giocava con i giacigli improvvisati e l’aria fiabesca dei personaggi: “Cartoni animati”.
Titolo metaforico.
Perché un po’ come tutti, anche i clochard attendevano qualcosa.
Di cosa siamo in attesa?
Io di niente, ma in giro vedo attesa. Forse di un nuovo Messia. Sarebbe meglio non dimenticare le cose che abbiamo già e che se semo scordati de avè. Gli esperti del niente in tv blablano e poi blablano ancora. Ma non è che il chiacchiericcio inutile ci dia poi questa gran mano.
A proposito di Messia. Ricorda cosa aveva chiesto all’altissimo?
“Signore preservami dai contenuti, salvami dal significato, fulminami all’istante qualora fossi preso dalla tentazione del messaggio”. Ricordo e non ho cambiato idea scrivendo questo libro.
Si è divertito a scriverlo?
Molto. Mi piace pensare che il lettore lo legga sentendo la mia voce. Ma non sono uno scrittore e non è detto che mi ripeta. I titolari del ruolo stiano tranquillissimi.
A cosa è stato attento?
A non avere un tono saccente, a non sfiorare l’iperbole. Mi fa paura l’iperbole.
Perché?
Come le dicevo prima il linguaggio si è trasformato. È drogato. Oggi non basta più dire bello, devi dire straordinario. E non è sufficiente dire ‘brutto’, devi dire che è una merda. Il linguaggio è sintomo e segnale preciso dello stato dei tempi. È cambiata un’epoca. Quando chiedevo a qualcuno un parere su un mio spettacolo, ricevevo risposte sincere e a volte trattenute.
Un esempio?
Chiesi a un amico se gli fosse piaciuto A me gli occhi, please e quello mi rispose: “Abbastanza”.
E lei si offese?
Neanche un po’. Se però dici a qualche regista suscettibile che la sua messa in scena è solo “bella” ti guardano come se gli avessi portato via la moglie. Se non dici “strabiliante” ti cacciano di casa.
Confrontarsi con la memoria è stato faticoso?
La memoria è strana, ha incognite che non riesci a definire. Non volevo parlarmi addosso.
Gassman la definì meticoloso.
Maniacale, a essere precisi. Aveva ragione. Ho studiato dizione per anni e prima di riutilizzare il mio dialetto ho inseguito la perfezione formale. Ho risentito le registrazioni di allora. Mi sono stato antipatico da solo.