La Stampa, 2 dicembre 2015
Donzelli ripubblica tutte le fiabe dei Grimm prima delle censure. Si scopre così un mondo popolato di madri snaturate, principi necrofili e particolari horror
Oggi che l’idea dell’autore demiurgo, unico e inimitabile, viene messa in ombra dal nuovo modello social di una collettività che concorre all’elaborazione del testo in modo quasi assembleare, fa un certo effetto scoprire che l’intento di pubblicare un libro il cui autore era semplicemente il popolo risale agli inizi dell’Ottocento, e si deve a quelli che dovevano poi diventare un brand mondiale della fiaba: i fratelli Grimm.
Figli di un avvocato dell’Assia, l’austero Jacob e il gaio e socievole Wilhelm, diversi e complementari, anzi inseparabili come due siamesi, infaticabili topi di biblioteca e patrioti, si ripromettevano nientemeno di fondare l’identità culturale della Germania, frammentata in decine di staterelli, traumatizzata da Napoleone, minacciata dall’egemonia prussiana. L’imperatore aveva preso a modello l’antichità classica? I romantici tedeschi si volevano costituire una loro antichità, quella del Medioevo, come deposito di valori fondativi: la voce del popolo come voce di Dio. Il maestro dei Grimm, l’illustre giurista Savigny, sosteneva non a caso che non si può comprendere il presente senza conoscere il passato.
Un editing di 45 anni
Non inventavano, i fratelli: raccoglievano con scrupolo scientifico le voci contadine e borghesi che tramandavano l’immenso patrimonio di canti popolari, proverbi e fiabe come un tesoro in cui si annidava l’anima profonda del Paese: semplice, saggia, profonda. Non volevano affermare la superiorità di una razza, ma valorizzare i «prodotti della terra», un capitale condiviso di esperienze raccontate in una lingua varia, articolata, plurale. Prima dell’unità politica, bisogna costruire quella culturale. Una bella intuizione, che varrebbe anche per l’incerta, balbettante Europa di oggi.
Le Fiabe per bambini e famiglie, pubblicate in due tomi nel 1812-15, sono subito un successo, prontamente imitato, ripreso, adattato un po’ ovunque. I bambini erano sempre rimasti un po’ esclusi dalle narrazioni come entità sostanzialmente marginali. Rappresentavano un problema di bocche da sfamare, o di lavoro minorile da sfruttare. Adesso non solo diventavano i protagonisti di tante storie, tenaci, astuti, capaci di tener testa al mondo dei grandi, sempre un po’ rozzi e bonaccioni, di compiere meritate ascese sociali. Diventavano un mercato assai appetibile. I Grimm non si fermarono certo. Continuarono a raccogliere materiali, a sottoporre le fiabe già pubblicate a un editing continuo, che durò ben 45 anni. Scoprivano il marketing, l’opportunità di rispondere alle sempre mutevoli esigenze del mercato.
Pasti cannibalici
Nella neonata Germania unita del 1871 il loro diventava il libro nazionale per eccellenza, immancabile in ogni biblioteca famigliare. Sono ben sei le edizioni che portano a quella definitiva del 1857, in cui i due poligrafi si dimostrano assai abili a adeguarsi a quello che ritengono culturalmente e politicamente corretto, ma anche a abbellire, a integrare i canovacci della tradizione orale con qualche optional gradevole. Meno schizzi di sangue e effetti splatter, meno echi di un Medioevo un po’ barbarico e ferino, meno particolari trucibaldi. Ai piccoli lettori della nuova borghesia emergente si doveva pure qualche riguardo.
Ce ne accorgiamo con divertita sorpresa adesso che l’editore Donzelli arricchisce il suo già benemerito corpus di fiabe d’ogni tempo e Paese (in cui spiccano i nostri Pitrè e Capuana) proprio pubblicando integralmente il ruspante Ur-Grimm originale del 1812-15 per le attente cure di Camilla Miglio, e con 24 tavole a colori di Fabian Negrin (Tutte le fiabe, pp. XXXVI-670, € 35).
Prima sorpresa: le matrigne cattive di Biancaneve o di Hänsel e Gretel non sono tali, come avevamo sempre creduto, ma madri snaturate, ciò che le rende ancora più riprovevoli. Quella di Biancaneve è invidiosa della bellezza della figlia, che a soli sette anni è già radiosa, tanto da ordinare al cacciatore di ucciderla e portarle indietro polmoni e fegato: se li sarebbe cucinati di gusto con sale e pepe (macabro dettaglio che ovviamente sparirà). Quanto alla madre dei fratellini, non sapendo come nutrirli, non si perita di spedirli per due volte nel bosco, incurante dei dubbi e dei rimorsi del marito.
Il principe necrofilo
Ci sono altri dettagli perturbanti, nella Biancaneve del 1812. Il principe necrofilo si fa consegnare dai sette nani la bara di cristallo in cui avevano rinchiuso la loro amata badante, e se la porta al castello, dove non si stanca di rimirarsela notte e giorno. I servi, seccati di dover accudire tutto il giorno la defunta, la prendono letteralmente a calci. E così, per una fiabesca eterogenesi dei fini, le fanno risputare il pezzetto di mela avvelenata che le era rimasto in gola, e dunque risvegliare.
La prima Cappuccetto Rosso è una che si fa abbindolare dal Lupo con colpevole incoscienza, e invece di andare dalla nonna si distrae con i fiori del bosco. Raperenzolo, che a onta del nome è la più bella bambina del mondo, rinchiusa in una torre da una fata malvagia vi fa salire quotidianamente il bel principe sciogliendo le sue lunghe trecce. «I due se la spassarono per un bel po’», fino a quando la fanciulla ha la faccia tosta di chiedere alla fata come mai i vestiti le si fanno sempre più stretti e non le entrano più. Cacciata in un deserto, partorisce due gemelli.
Dalla Cina alla Germania
Ma è anche vero che i Grimm, quando devono cucinare una fiaba che appartiene ad altre tradizioni e magari viene di lontano, dalla Francia o addirittura dalla Cina, come Cenerentola (il che spiegherebbe l’ossessione dei piedi piccoli), finiscono per lavorarla alla tedesca, cioè inserendo nell’ultima stesura i particolari horror cari alla loro giovinezza. Non spariscono dal racconto iniziale solo la carrozza con i sei cavalli bianchi bardati e piumati e il lacchè in livrea azzurra, che davano al viaggio verso corte una confortevole aria disneyana. Fanno accecare le due sorellastre, che già avevano cercato di entrare nella scarpina (d’oro e non di cristallo come in Perrault) tagliandosi dita e pezzi di calcagno, da quelle stesse provvide colombe che avevano presieduto alla trasformazione della ex servetta fuligginosa.
Forse sapevano, i due sagaci fratelli, che nei corsi e ricorsi della storia l’horror finisce sempre per vincere.