il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2015
Montanelli e Pinocchio nel giardino di Collodi
Collodi agosto. L’iscrizione è modesta e dice: “In questa casa – visse i primi anni della fanciullezza – e fece dipoi sovente ritorno – attrattovi dai materni ricordi – Carlo Lorenzini – illustre pubblicista – milite volontario delle patrie battaglie – scrittore urbanamente arguto – benemerito della popolare istruzione – che col pseudonimo di Collodi – rese celebrato il nome di questo paese – I collodesi – annuente e plaudente il Municipio di Pescia – P.P. – Nacque il 24 novembre 1826, morì il 26 ottobre 1890”.
Vecchie delusioni
Penso con nostalgia al Rigutini, autore di questo saggio lapidario così modestamente apologetico. Che cosa avrebbe inciso sulla pietra uno specialista d’oggigiorno? Sarebbe diventato, senz’altro, “il Poeta”; il “milite volontario” sarebbe stato promosso a “prode tra i prodi”; e lo “scrittore urbanamente arguto” avrebbe offeso il cadavere di qualunque cronista 1942.
Ma né l’autore né i collodesi, né il plaudente municipio di Pescia sapevano a quei tempi che il professor Malherbe dell’Università di Stellenbosch avrebbe compilato un giorno la duecentesima traduzione di Pinocchio e che Walt Disney avrebbe, per Lorenzini, tradito Andersen.
Nemo propheta in patria, risponde sospirando alle mie osservazioni il dottor B. che mi accompagna nella gita. I medici condotti e i notai di provincia sono gli unici che seguitano a tener ancorata la loro saggezza alla boa delle massime latine. Questa non era la prima volta che venivo a Collodi. Sono nato a non molti chilometri di qui e un mio zio Cecco, che si occupava di assicurazioni, ci capitava spesso in macchina e mi ci portava.
Io, ragazzo, non mi figuravo nemmeno lontanamente che la gita avesse intenzioni letterarie che infatti erano del tutto estranee alla mente del mio Virgilio assicuratore. Sapevo a memoria Pinocchio, s’intende, ma ignoravo che Collodi fosse la patria del suo omonimo autore, né zio Cecco sembrava ricordarsene quando, con la 500 cigolante, imboccavamo la Val di Nievole e ci fermavamo, in mezzo a un nugolo di ragazzini, polli e anatre in libertà, davanti allo “storico giardino”.
Perché era lo storico giardino che zio Cecco mi conduceva a vedere. Il guardiano ormai ci conosceva e ci considerava di casa. Non correva nemmeno più, vedendoci arrivare, a infilarsi l’ammiragliesco berretto a visiera con sopra scritto a lettere d’oro: “Storico giardino di Collodi”. A lui mi affidava zio Cecco, che aveva furia e io passavo intere mattine in compagnia dello storico custode dello storico giardino, il quale mi raccontava la storia del medesimo. “Fu il marchese Paolo Garzoni, di nobile ed illustre prosapia trecentesca, consigliere di Stato. Probo e provvido uomo, che fece costruire nel Seicento, da Ottaviano Diodati patrizio lucchese, il giardino di cui oggi Collodi mena vanto”. Cosa potevo supporre io, fanciullo, della gloria di Pinocchio e delle sue duecento traduzioni?
Rivincita del buon senso
Lo storico giardino mi dava lo stesso delusorio sentimento che mi diede il circo equestre quando per la prima volta mi ci condussero per la fiera di Tutti i Santi a Fucecchio. Si scese da Le Vedute in landò e mio padre diceva: “Ora vedrai i leoni, le tigri e le pantere”.
Un brivido lungo mi correva per la schiena. I leoni, le tigri e le pantere mi erano stati presentati da Emilio Salgari nell’atto di sbranare tutto ciò che di sbranabile si trovavano a portata di zampa. Non mi era possibile concepire, in loro, un atteggiamento diverso e più mite di questo dello sbranare. E invece, quando il gabbione fu drizzato in mezzo all’arena e il domatore entrò tutto vestito di bianco e stivaloni lucidi, schioccando una lunga frusta, vidi comparire dietro a lui delle povere bestie di proporzioni modeste, impeccabilmente tosate e dall’aria mite e casalinga. Il domatore schioccava la frusta e loro saltavano obbedienti. Una di esse sbadigliò e mio padre disse: “Senti come rugge?”. Con la stessa voce di mio padre, diceva zio Cecco quando veniva a prendermi: “Le hai viste le cascate?”.
Ahimè, le avevo viste, il guardiano, che si chiamava Giovanni, disponeva due poltroncine di vimini in fondo alle medesime, e poi dava lascio all’acqua che, addomesticata come belve del circo, si metteva a sgrondrare con un gorgheggio di cardellino da una vasca superiore a una inferiore fino a comporre un ascensore liquido che nel sole riluceva. Giovanni recitava: “Acqua che da racchiusi angusti lochi – Di sotterranee carceri secrete – Sprigionate alla luce escono liete – A festeggiar con mille scherzi e giochi”. Giovanni non si rendeva conto, nell’atto di declamare questi versi di Francesco Sbarra, di seminare nell’anima di un fanciullo il primo germe di un’antipoesia destinata a maturare col tempo e a sfociare nel più radicato odio contro ogni genere di endecasillabi e di ottonari.
Ho sentito poi dire, negli anni in cui crebbi, che lo storico giardino ha, nel suo cattivo gusto, qualcosa di nobile e grandioso. Può darsi. A me quello che dava noia non era il cattivo gusto, era l’aria ammaestrata, lisciatina e vezzosella di quei bossi, di quelle mortelle, di quei cipressi ed allori venuti su a furia di concime e con lo scialle sul groppone d’inverno come i pechinesi delle zitelle sterili. Io che non avevo occhi, allora, che per le foreste vergini e agognate con tutta l’anima alla retorica del selvaggismo, dovevo tollerare con sorrisi di gratitudine che zio Cecco spendesse per me le quattro lire d’ingresso allo storico giardino e che nei “Bagnetti” la voce di Giovanni invocasse la miracolosa apparizione di damine ignude e dalle carni rosee scherzeggianti con mosse di bambola e squittii di fantolini fra gli spruzzi delle fontanelle.
In omaggio a questi ricordi, stavolta sono passato oltre lo storico giardino. Chissà chi lo possiede, ora: dai Garzoni ceduto a un mercante di Carrara, da questo all’ingegner Malvezzi, dal Malvezzi al Giacomini, la decadenza del lusso è in questa anabasi, manifesta. I suoi amatori si fanno sempre più radi e confesso che vedrei senza orrore lo storico giardino trasformarsi in uno storico orto di guerra e fra i piedi delle damine folleggianti fra gli scherzetti d’acqua crescere rigogliose le patate: sarebbe un segno dell’epoca proletaria fra i più evidenti ed efficaci. Chi ha detto che i giardini debbano restare estranei alla trasformazione dei tempi?
Un sottile equivoco
Eppure una giustizia anche allo storico giardino devo rendergliela: ed è che esso non stona affatto nel paese di Pinocchio. Io non so se Carlo Lorenzini ci venisse mai a cercarvi ispirazione per le avventure del suo eroe: forse non possedeva il “cavurrino” (due lire) per pagare il pedaggio. Ma è certo che Pinocchio non poteva nascere che in un ambiente estremamente razionale come questo della Val di Nievole in genere, e dello storico giardino in particolare: dove tutto è chiaro e dove anche la fantasia deve mettersi al passo con la geometria, con le proporzioni, col toscanissimo metro del buon senso.
Geppetto voleva certo fare qualcosa di anormale quando si mise a segare il famoso legno, voleva certo violare le sacrosante leggi del logico e dell’umano; e invece non gli venne fuori che un ragazzo, un umanissimo ragazzo di legno che crebbe e si sviluppò come un ragazzo di carne. Sorte beffarda e malvagia. Concepito per un miracolo più umile ma non meno straordinario di quello di san Giuseppe, il figlio di colui che come san Giuseppe si chiamava ebbe la vita di un uomo qualunque e per nulla miracoloso. Come il marchese Paolo Garzoni, probo e provvido uomo, il quale non riuscì a costruire che un giardino tutto limiti e chiarezza, senza mistero, così Carlo Lorenzini non inventò che un ragazzo, anzi “il” ragazzo. Che intuiscano vagamente tutto ciò i collodesi, quando nell’elenco delle loro glorie paesane mettono al numero uno lo storico giardino e al numero due Carlo Lorenzini? Che intuiscano cioè il rapporto di dipendenza e di parentela che intercorre fra le due istituzioni e nominino prima il giardino per la stessa ragione. per cui, parlando di Giotto, si nomina prima Cimabue?
Fatto sta che Collodi è, a Collodi, quasi un ignoto rispetto allo storico giardino. Avendo chiesto dov’era la sua casa, una donna a sedere sulla porta mi rispose che non lo sapeva. “Come!?” dissi. “Eccola là, ma ora non appartiene più ai Lorenzini. Appartiene…”. Il nome si perse alle nostre spalle. Povera casa d’artigiani, tinta di rosa, con l’usciolo verde e gli scalini slabbrati, soffusa di decenza.
L’iscrizione del Rigutini, pur così modestamente apologetica, le incombeva sulla porta come una penna di struzzo incomberebbe sulla testa di una popolana vestita di rigatino. “Chi direbbe che lì è nato il più grande …” diceva superfluamente il dottor B. I nostri occhi erano ipnotizzati sul “benemerito della popolare istruzione”. Questo interessava ai collodesi: di avere un compatriota benemerito di qualcosa, e Rigutini li contentò escogitando l’istruzione e anteponendole, per nobilitarla, l’aggettivo “popolare”. Popolare non è la stessa cosa di democratico. Ma nel 1890 la distinzione non era chiara. Rigutini cascò in pieno nell’errore. Nemmeno lui si era accorto che Pinocchio era nato nel meno popolare, nel più aristocratico giardino d’Italia; sì, proprio nello storico giardino di Collodi che tanta e ingiusta concorrenza sembra fare alla gloria di Carlo Lorenzini. Qui doveva venire Walt Disney a disegnare i suoi cartoni. Fra i Puttini e i Fauni e gli zampilli e le trombe di coccio e le siepi frenate dalla potatura di Giovanni, sotto questo limpido cielo di Val di Nievole, un cielo così terrestre e preciso – Pinocchio sarebbe rimasto quello che era: un ragazzo di legno, figlio miracoloso ma legittimo di un uomo vero; non un fantoccio di nebbia emigrato quaggiù da un paese del nord e sospiroso di riassorbirvisi e perdervisi per “impotenza al concreto”.