La Stampa, 2 dicembre 2015
Per staccare la spina all’Isis bisogna sigillare le frontiere tra Siria e Turchia. Erdogan giura di avere tutto sotto controllo
Barack Obama vuole chiuderla in fretta, Recep Tayyp Erdogan assicura che lo sta già facendo ma i comandi russi ritengono sia un’operazione militare pressoché impossibile perché nessuno ha la forza per riuscirci: il tallone d’Achille della Turchia è la frontiera con la Siria perché è da questi varchi che transita ogni sorta di traffici illegali, inclusi i terroristi jihadisti che si muovono fra l’Europa e le regioni dello Stato Islamico.
Oltre 700 chilometri
Il confine fra Siria e Turchia nel suo complesso si estende per oltre 700 km ma la zona considerata più a rischio è di appena 96 km, da Jarabulus nell’Est fino a Cobanbey e Kilis ad Ovest. È un’area che vede fronteggiarsi truppe turche e miliziani jihadisti, delimitata da due enclave controllate dall’Ypg, il partito dei curdi siriani, e da un entroterra in gran parte controllato dallo Stato Islamico.
Durante la recente visita a Washington, è stato il presidente francese François Hollande a chiedere a Barack Obama di «sigillare questi 96 km» in ragione del sospetto che vi siano transitati anche i terroristi autori del massacro di Parigi. E ora l’inquilino della Casa Bianca sembra condividere l’approccio, fino al punto da rivolgersi direttamente a Erdogan per chiedergli di «chiudere la frontiera ad ogni illegalità» schierando in tempi stretti un contingente di almeno 30 mila uomini.
Il Segretario di Stato, John Kerry, ha chiesto senza mezzi termini a Erdogan di bloccare i traffici che alimentano Isis in Siria e Iraq, e ora Obama rincara la dose alla volta di Erdogan, che però si difende affermando: «Abbiamo già iniziato da tempo a posizionare soldati lungo il confine». Come dire, tutto sotto controllo.
Si tratta di un luogo di importanza strategica nella crisi in atto perché la città di Aleppo si trova a breve distanza e dunque controllare la frontiera significa avere una seria ipoteca sulla metropoli sunnita teatro da tre anni di un feroce braccio di ferro militare.
A complicare lo scenario regionale ci sono le unità curde-siriane del «Ypg»: controllando Kobane e Afrin, agli opposti estremi dei 96 km di confine, potrebbero tentare il blitz e chiuderlo ma andando in questa maniera ad innescare il peggio. Ovvero, un intervento turco contro di loro. Konstantin Sivkov, presidente dell’Accademia di Problemi geopolitici di Mosca, aggiunge un altro tassello alla complessità: «È la carenza di efficienti truppe governative siriane a rendere di fatto impossibile chiuderlo ermeticamente». «Poiché i curdi non possono avvicinarsi per timore di attacchi dell’esercito turco e le truppe siriane sono oramai del tutto inefficienti – aggiunge Sivkov – l’unica a poter intervenire contro i traffici illeciti è la Russia. Questo spiega perché la Turchia ha abbattuto un nostro jet militare su quei cieli».
Il ministro degli Esteri del Cremlino, Sergei Lavrov, si dice «certo» che «chiudendo questo tratto di frontiera il terrorismo sarà smantellato» e Yevgeny Satanovsky, presidente del Centro di studi mediorientali di Mosca, gli dà manforte: «Chiudere il confine significa staccare la spina al Califfato di Abu Bark al-Baghdadi» obbligandolo a non muoversi. Giora Eiland, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Israele, ritiene che le difficoltà «nascano dalla Turchia» perché «fra i militari c’è chi vuole un ritorno della nazione ottomana i cui confini pre-Prima Guerra Mondiale includevano anche le città sunnite Homs in Siria e Mosul in Iraq con i relativi proventi del greggio».
Le bombe al fosforo
Intanto sul lato siriano del confine la notizia del giorno viene dalle accuse dei ribelli islamici all’esercito russo di adoperare bombe al fosforo bianco – bandite dalla Convenzione di Ginevra – per schiacciare la resistenza dei quartieri di oppositori determinati. L’hashtag #Russianairstrikes cela un numero di persone che raccolgono immagini di vittime e danni arrecati dagli «attacchi al nemico con le bombe al fosforo» nella «regione di Raqqa».