Corriere della Sera , 2 dicembre 2015
A lezione di letteratura russa da Nabokov, per scoprire che Tolstoj è meglio di Dostoevskj
Prima del successo mondiale di Lolita, che gli diede l’indipendenza economica, il grande scrittore Vladimir Nabokov, emigrato in America nel 1940, insegnò letteratura russa nelle università americane. Quelle lezioni non compiutamente elaborate e spesso in forma di appunti, furono raccolte in un volume che poi Garzanti nel 1987 ha pubblicato nella sua collezione di Saggi Blu col titolo appunto di Lezioni di letteratura russa. Rivolte com’erano a studenti americani che avevano poca familiarità con gli autori in questione e li conoscevano soltanto in traduzioni non sempre perfette, queste lezioni sono accompagnate da lunghe citazioni di brani tratti dalle opere per dare direttamente agli studenti un’idea dei testi originali. La forte personalità di Nabokov dà alle sue lezioni un tono particolare che, più che a teorie critiche, si affida a quello che lo scrittore riteneva il «principio delle qualità artistiche». Cercando cioè di dare informazioni esatte su quei «particolari e combinazioni di particolari che fanno scoccare la scintilla senza la quale un libro è inerte». Con questo criterio vengono analizzate da Nabokov le opere di sei scrittori: Gogol’, Turgenev, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Gor’kij, che fanno parte del meraviglioso canone russo. Di loro parla Nabokov con ammirazione ma senza soggezione alcuna, li tratta alla pari, ma senza presunzione. Partecipa del loro travaglio artistico, si introduce nel loro processo creativo, a volte con garbo li riprende, altre volte senza garbo (come fa con Dostoevskij e con Gor’kij) ne sottolinea qualche errore oppure li applaude entusiasta. Sembra quasi che la sua vecchia passione di cacciatore di farfalle si rinnovi mentre legge i suoi autori e ne sceglie le pagine per lui più significative, ne scopre la bellezza nascosta in una frase, in un’osservazione, in un dettaglio.
Altrettanto decise, e a volte incomprensibilmente aspre, le sue idiosincrasie. La vittima più nobile delle sue insofferenze è Dostoevskij. Tra lui e Dostoevskij c’è proprio una totale incompatibilità, che arriva fino a fargli considerare l’autore de I fratelli Karamazov, di Delitto e castigo, de I demoni, lui e i suoi personaggi, dei nevropatici prigionieri delle proprie idee sballate e delle proprie confuse ossessioni. Io credo che Nabokov riconoscesse la grandezza di Dostoevskij, ma non l’amasse, perché non solo in Dostoevskij, ma in ogni scrittore, la predica ideologica lo disgustava. Lui preferiva «l’estro artistico» anche se folle di Gogol’, la pacata ma artisticamente rivoluzionaria naturalezza di Cechov, l’adesione alla profonda verità della vita che Tolstoj trasfonde nei propri personaggi, e Anna Karenina gli sembra una delle migliori storie d’amore della letteratura mondiale.
Ma percorriamo adesso i vari saggi da Nabokov dedicati a quella mezza dozzina di grandi maestri della prosa che quando arrivarono in blocco negli altri Paesi europei provocarono insieme sconcerto e ammirazione.
Virginia Woolf parla di «tumulto del pensiero» e scopre che il personaggio principale di questa letteratura è l’anima, quell’anima che avendo poco senso dell’umorismo e nessuno della commedia è solo una vaga connessione con l’intelletto, informe, confusa, ma è chiaro che in lei la sorpresa e l’ammirazione prevalgono. Henry James deplorava la mancanza di forma, Joseph Conrad scrisse di non avere una grande opinione di Anna Karenina, e Nabokov scrive: «Non perdonerò mai a Conrad questa battuta». Insomma «il punto di vista russo» sconvolse la compassata mentalità inglese e anche la sua idea di letteratura, ma le rivelò «un nuovo panorama della mente umana».
Ora, tornando a quella «mezza dozzina di maestri della prosa» Nabokov afferma: «Lasciando da parte Puškin e Lermontov, possiamo elencare i grandi prosatori messi in quest’ordine di grandezza: primo Tolstoj, secondo Gogol’, terzo Cechov, quarto Turgenev». E aggiunge ironico che è come dare i voti ai compiti in classe, e che certo Dostoevskij sta aspettando per chiedergli ragione dei suoi bassi voti. Ricordo che Nabokov diceva questo negli anni ’50, anni della guerra fredda, quando l’ideologia inquinava non solo le anime ma anche la letteratura, e questo spiega l’atteggiamento a volte troppo severo di Nabokov verso gli autori dove il tratto ideologico gli appariva più forte.
Per questo lui ama tanto Gogol’ e gli dedica un saggio entusiasta: «Se vi interessano le idee, i fatti, i messaggi, state lontani da Gogol’». E poi: «La sua opera, come tutte le grandi imprese letterarie, è un fenomeno di linguaggio, non di idee». Solo il sano scrittore di second’ordine appare al grato lettore un amico vecchio e saggio che gli tiene compagnia. Gogol’ era invece una strana creatura, quando si lasciava andare allegramente sul bordo del proprio abisso personale diventava «il più grande artista che la Russia abbia prodotto». Il suo libro sulle anime morte è «un incubo caleidoscopico», il meraviglioso racconto Il cappotto è un incubo grottesco e sinistro che scava buchi neri nello scialbo tessuto della vita. Datemi il lettore creativo, questo è un racconto per lui. Con Le anime morte Gogol’ ha scritto uno straordinario poema epico. Poema, si badi bene. Sono queste le opinioni di Nabokov.
Quando passa da Gogol’ a Turgenev, Nabokov è più tiepido. Riconosce in lui i segni della grande letteratura russa, ma Turgenev più che grande è «piacevole». Comunque Padri e figli è uno dei più brillanti romanzi dell’Ottocento, e non è un riconoscimento da poco. Per Nabokov Turgenev è un artista di prim’ordine, ma quel «piacevole» resta impresso come una limitazione gentile ma non trascurabile.
E arriviamo a Dostoevskij: «La mia posizione su Dostoevskij è curiosa e difficile», questo è l’inizio, e subito dopo, tanto per esser preciso, Nabokov osa scrivere: «Dal punto di vista dell’estro artistico Dostoevskij non è un grande scrittore, ma è piuttosto mediocre». Non è un po’ troppo definire Dostoevskij mediocre? Nabokov se lo può permettere? A lui sembra «incredibilmente banale» in Delitto e castigo la storia della prostituta virtuosa che redime Raskolnikov. Lo stesso Raskolnikov gli sembra l’autore di un delitto «stupido e inumano», commesso da un nevrotico dalle idee curiosamente fasciste che ha esposte in un articolo di giornale. Da queste idee è stato spinto a uccidere? Per quanto riguarda la sua redenzione, a Nabokov non piace «il vezzo di arrivare peccando a Gesù», e nemmeno la morbosità spirituale o «la gongolante pietà per la gente, per gli umiliati e offesi».
Insomma lui riconosce di non aver orecchio per la musica e similmente non aver orecchio per Dostoevskij, e non lo considera un grande scrittore nel senso in cui lo sono Puškin, Tolstoj e Cechov. Questo lo avevamo capito, si capisce meno il fatto che per Nabokov il miglior libro di Dostoevskij sia Il sosia, mentre L’idiota, I demoni, I fratelli Karamazov gli sembrano grandi libri «scritti in fretta e in una situazione di stress», pieni di difetti strutturali, i cui personaggi sono singolari e affascinanti fantocci immersi nel flusso del movimento delle idee dell’autore. E poi si sentono in questi romanzi le influenze della narrativa sentimentale e «gotico occidentale (Richardson, Rousseau, Sue, Dickens) associate a una religione della compassione che sconfina nel sentimentalismo melodrammatico». E ci fermiamo qui, convinti che l’aristocratico Nabokov e il povero Dostoevskij siano assolutamente inconciliabili.
È il conte Leone, Tolstoj, il più grande di tutti e il più amato, lo scrittore dall’arte potente e «furiosamente luminosa». Tra l’altro il mondo di Tolstoj era quello cui apparteneva la famiglia di Nabokov, un mondo scomparso, di cui, esule in America, egli sente ancora forte la nostalgia. Ed è Tolstoj che scrive «l’immenso Guerra e pace e l’immortale Anna Karenina». L’asceta che era in lui desiderava seguire con lo stesso ardore con cui il libertino anch’esso in lui desiderava i piaceri urbani della carne. Nabokov si domanda: «Che importanza hanno le sue opinioni etiche di fronte a questo o quel brano immaginativo di uno qualsiasi dei suoi romanzi?». E tuttavia quando inizia a raccontare Anna Karenina, ci avverte che la sua trama è un «intreccio morale» dove le storie parallele di Anna e Vronskij e di Kitty e Levin si riferiscono la prima a un amore carnale, condannato perciò a finire tragicamente col suicidio di Anna, la seconda a un amore che si fonda su una concezione metafisica e non soltanto fisica, che corrisponde all’ideale religioso di Tolstoj. Un elemento importante della narrazione tolstojana è il tempo, perché la sua scrittura procede di pari passo con le nostre pulsazioni. C’è il tempo di Proust o il tempo di Joyce che procedono più lenti o più veloci del tempo del lettore; quello di Tolstoj è il tempo medio comune, quello che corrisponde al pendolo di ognuno, il tempo normale di ogni vita. Inoltre il flusso di coscienza o monologo interiore è un metodo espressivo inventato da Tolstoj molto tempo prima di Joyce, e di Anna Karenina seguiamo i pensieri, il flusso della sua coscienza attraverso il suo silenzioso monologo interiore. La prosa di Tolstoj non è semplice e diretta come può apparire per la sua somiglianza con la vita, è invece complessa e attentissima ai dettagli, ai gesti, alla presenza di un oggetto, è una prosa che cerca non la verità, ma la luce interiore della verità, e a Tolstoj «accadeva di trovarla in sé, nello splendore della propria immaginazione creativa». Anna Karenina non è Emma Bovary, una sognatrice di provincia, il bello di Anna è che lei dona a Vronskij l’intera vita, per amore lei sfida le convenzioni sociali e «sostiene l’urto della collera della società». Vronskij «è un uomo mondano», è diverso da lei anche se l’ama intensamente.
Tutto questo e altro ci dice Nabokov, facendo l’analisi di questo romanzo per far capire agli studenti americani la grandezza e l’unicità della narrativa tolstojana. Non si sofferma sugli altri romanzi di Tolstoj perché non previsti nel suo programma, fa però un’eccezione per La morte di Ivan Il’ic, che secondo Nabokov non è il racconto della sua morte, ma della sua vita rivisitata al momento della fine. La morte determina uno straordinario cambiamento del suo punto di vista: «E se la mia vita fosse stata tutta sbagliata?», si domanda Ivan Il’ic. Ed è questo il vero tema del racconto.
Segue la lezione su Cechov, che secondo Nabokov «è stato ingiustamente paragonato a quello scrittore francese di secondo piano che è Maupassant». I due hanno in comune una sola cosa, «non potevano permettersi di tirare in lungo», ma la scrittura di Cechov ha in più una gentilezza che permea tutti i suoi racconti. Dopo una breve introduzione biografica, Nabokov avverte: «Ci sono libri per persone spiritose, vale a dire che solo un lettore con il senso dell’umorismo può realmente coglierne la tristezza». Per Cechov le cose sono insieme buffe e tristi, «ma non potete accorgervi della loro tristezza se non cogliendone la buffoneria». Cechov riesce a trasmettere una sensazione di bellezza artistica assai più di molti scrittori convinti di sapere che cosa sia una prosa ricca e bella. Nonostante il grigiore delle vite da lui create nei suoi racconti «il semplice fatto che questi uomini siano vissuti e probabilmente continuino in qualche modo a vivere in qualche angolo della sordida e spietata Russia di oggi, è una promessa di cose migliori per il futuro del mondo», dice Nabokov, e allude alla Russia ancora in quegli anni sotto il regime staliniano. E dopo un’analisi del racconto La signora col cagnolino, che colloca Cechov al livello più alto tra i narratori russi, quello di Gogol’ e di Tolstoj, Nabokov conclude: «Io raccomando con tutto il cuore di prendere in mano il più spesso possibile i libri di Cechov e di sognare su di essi come chiedono di essere sognati».
Le Lezioni di letteratura russa di Nabokov terminano con un capitoletto su Gor’kij, scrittore non molto apprezzato se non per la commedia I bassifondi, mentre tutto il resto, inficiato com’è dalla predica politica secondo il severo Nabokov, trascurabile e di non alto livello.