Corriere della Sera, 2 dicembre 2015
L’Ilva è agli sgoccioli. Tra il crollo dei prezzi dell’acciaio, i prestiti che non arrivano e quei 50 milioni di euro che bruciano ogni mese, l’azienda dei Riva non riesce a far fronte alle spese essenziali
«L’acciaio o la vita: scegli» recita la scritta a spray nero sulle mura della chiesa di Tamburi, il quartiere di Taranto più devastato dall’epidemia di tumori attorno agli impianti Ilva. Non fosse perché la produzione è scesa quasi a metà della capacità industriale, la più vasta d’Europa, le ombre di polvere nera sui muri oggi incutono meno paura. Ma a scegliere per gli abitanti di Tamburi e gli oltre dodicimila di là dal muro, gli addetti di un impianto grande come la città, rischia di essere qualcun altro. Fuori da Taranto, e in parte anche dall’Italia.
Per l’Ilva di Taranto e di Genova, 14.200 dipendenti diretti e altri ottomila nell’indotto, sono tornati tempi terribili. L’azienda sta ingaggiando la sua battaglia finale per la sopravvivenza: la stagione che si apre sarà decisiva per capire se uno dei maggiori gruppi siderurgici del continente, un interesse strategico per l’Italia, può arrivare – e a quali condizioni – alla seconda metà del 2016. La sola certezza è che in queste settimane gli ostacoli stanno tornano ben visibili in molte direzioni: dalla Svizzera, da Bruxelles, così come dalle stesse casse del gruppo che nel 2015 brucerà oltre mezzo miliardo di euro, e ormai fatica a far fronte ad alcune delle spese essenziali.
Il mese scorso, una corte penale federale del Canton Ticino ha bloccato per molti anni a venire il rimpatrio in Italia di 1,2 miliardi di euro depositati su un trust svizzero riconducibile a Emilio e Adriano Riva. Quelle risorse degli ex proprietari del gruppo siderurgico, reclamate dalla procura di Milano sulla base di un’inchiesta per frode fiscale, dovevano andare al Fondo unico di Giustizia dello Stato e di lì trasformarsi in un prestito per aiutare l’Ilva. Non succederà, non nel futuro prevedibile. Il tribunale elvetico è stato quasi sprezzante: «Non c’è garanzia delle autorità italiane che le persone perseguite, se risultassero innocenti, non subirebbero dei danni – ha scritto —. E la consegna dei fondi all’Italia avrebbe come risultato la loro conversione in obbligazioni di una società fallita». Quali che siano gli indizi a carico, in effetti i due fratelli Riva non sono ancora neppure rinviati a giudizio. Il sequestro dei loro fondi non era il vanto di uno Stato capace di garantire i diritti di proprietà di qualunque investitore, anche discutibile, finché provato colpevole.
Nell’immediato, il rifiuto opposto dalla Svizzera avrà almeno una conseguenza: cambiare la legge di Stabilità votata in Senato dieci giorni fa. L’articolo 489 della manovra prevede infatti una garanzia dello Stato italiano «esplicita, incondizionata e irrevocabile» su prestiti per 800 milioni che l’Ilva commissariata avrebbe potuto chiedere alle banche in attesa di ricevere i fondi dei Riva. Ora che non arriveranno, non è scontato che lo Stato possa garantire le banche sulla base di una rete di sicurezza che non c’è più. In parte, è quanto sta già succedendo: a fine aprile il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan ha firmato un decreto con cui garantisce un altro prestito da 400 milioni di Cassa depositi e prestiti, banca Intesa Sanpaolo e Banco popolare all’Ilva, sempre coperto dai fondi di Emilio e Adriano Riva che sarebbero dovuti arrivare.
Ora quella garanzia pubblica a vantaggio dell’Ilva sta attirando l’attenzione di Bruxelles. «La Commissione europea ha ricevuto ricorsi riguardo a possibili misure pubbliche a favore dell’Ilva, che stiamo valutando» dice la portavoce del commissario europeo alla Concorrenza Margrethe Vestager. Secondo almeno tre persone coinvolte, sarebbe ormai matura la decisione di aprire una procedura per aiuti di Stato contro l’Italia. La Commissione starebbe valutando anche l’eventualità di ingiungere l’interruzione immediata del sussidio, con il rischio di bloccare l’attività dell’Ilva. A Bruxelles si ricorda che le regole comunitarie proibiscono aiuti di Stato a operatori cronicamente in perdita, e Ilva sta bruciando cassa per 50 milioni al mese dopo aver perso 2 miliardi dal 2012 all’anno passato. Non sempre in realtà le norme vengono applicate con intransigenza: la tedesca Salzgitter ha ricevuto ripetuti aumenti di capitale dal suo azionista di controllo, il Land della Bassa Sassonia, e nel 2002 i Chantiers de l’Atlantique furono salvati con 650 milioni dal governo di Parigi senza contraccolpi traumatici. Ma a Bruxelles si è sempre più convinti che, «in linea di principio», nessuna azienda debba essere tenuta artificialmente in vita usando il denaro dei contribuenti. Da parte di Arcelor-Mittal e altri concorrenti europei, la pressione sulla Commissione perché stacchi la spina all’Ilva è fortissima: significherebbe togliere dal mercato fino a 11 milioni di tonnellate di potenziale produzione, metà del surplus europeo in certe linee di prodotto. A Bruxelles si vedrebbe di buon occhio una cessione del gruppo, magari a pezzi, ma è quasi impossibile: nessuno al mondo, neanche gratis, comprerebbe un impianto al 78% sotto sequestro della magistratura italiana. Poco importa che un’Ilva risanata sarebbe anche troppo competitiva per i suoi avversari.
Massimo Rosso e Aldo Ranieri, operai degli altiforni di Taranto, si accontenterebbero di molto meno. Per ora – dicono – basterebbe che l’azienda fornisse guanti, maschere protettive e tute ignifughe nuove quando serve. L’Ilva, oggi, non ha cassa neanche per questo.