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 2015  dicembre 02 Mercoledì calendario

«Non si possono lasciare da soli dei ragazzini a dirsi “tu devi morire” o “bimbo minchia obeso”». Parla il preside che ha pubblicato la chat degli alunni sul sito della scuola per scuotere le coscienze

C’è chi invoca ceffoni, punizioni esemplari; chi invita a rimboccarsi le maniche e affrontare il problema, a parlare e discutere con i ragazzi. Pier Paolo Eramo, dirigente scolastico della Sanvitale-Fra Salimbene, istituto comprensivo di Parma, cita Moretti: «Le parole sono importanti». E quelle a cui si riferisce sono pesantissime, di parole. Messaggi crudeli, come solo degli adolescenti possono pensare di scambiarsi a cuor leggero. Insulti comparsi in una discussione via WhatsApp di un gruppo-classe delle medie, intercettata dai genitori di qualcuno e segnalata agli insegnanti. Lui ha deciso di pubblicare stralci di quella conversazione sulla pagina Facebook della scuola, oscurando i nomi dei partecipanti, ma accompagnando le schermate della chat con una spiegazione-sfogo. Nella quale dice no a «un uso sconsiderato e irresponsabile delle parole». 
Quarantanove anni, preside da 4, vent’anni di insegnamento alle spalle, Eramo ha deciso che «non si poteva lasciare da soli dei ragazzini a dirsi “tu devi morire” o “bimbo minchia obeso”». E se «è normale che degli 11enni non comprendano la gravità di quello che dicono – spiega – gli adulti, invece, devono aiutarli». Ma la piazza di Facebook è il luogo adatto per parlarne? È il modo giusto per aiutarli? «Me lo sono chiesto anch’io – risponde – e l’ho chiesto ai collaboratori e al consiglio d’Istituto, con cui mi sono consultato. Poi ho deciso che il messaggio “fate attenzione a quello che fate quando siete sui social” non sarebbe stato abbastanza. Non questa volta. Serviva uno strumento potente, che aiutasse tutti a rendersi conto della gravità del fenomeno». 
Nel suo post, il preside scrive: «Lo faccio perché siamo stufi. Siamo stufi di questo assurdo mondo parallelo che ci inquina; siamo stufi dell’uso sconsiderato e irresponsabile delle parole; siamo stufi dell’assenza degli adulti». Da quando è alla Sanvitale-Salimbene, ha organizzato una gran quantità di corsi di formazione, incontri con la Polizia postale, progetti in rete con altre scuole: «Di bullismo, cyberbullismo, rispetto dell’altro, parliamo spesso. Con genitori, insegnanti e alunni». Sforzi inutili? «Diciamo insufficienti. È vero che alle medie si inizia a costruire la propria identità sociale, qui però c’è una degenerazione. Questo è il terzo caso in dieci giorni. Una volta si prende in giro lo straniero perché si veste male, poi lo sfigato, il fighetto, la ragazzina imbranata...». Qui gli insulti erano rivolti a un ragazzino cicciottello: frasi violente, cose indicibili, mentre gli altri del gruppo stavano a guardare. L’ennesima provocazione: «Un nemico imbattibile, pervasivo», dice Eramo. Che, persa la pazienza, ha deciso di aprire un dibattito più grande: «Non basta parlarne con un individuo, coinvolgere una classe: è in gioco il ruolo di tutti gli adulti. Queste cose non si possono liquidare come ragazzate, perché dopo episodi così succede sempre che qualche ragazzino entri in crisi, non abbia più voglia di venire a scuola, si vergogni ad andare in palestra». Ecco quindi l’appello: «Non vogliamo più sentire che era solo uno scherzo, un gioco, che non immaginavamo, non sapevamo. È ora di chiedersi se questo è quello che vogliamo dai nostri ragazzi e agire di conseguenza. È ora di prendere in mano il cellulare dei nostri figli, di guardarci dentro (perché la privacy nell’educazione non esiste), di reagire e svolgere in pieno il nostro ruolo di adulti, senza alcuna compiacenza, tolleranza bonaria o, peggio, sorniona complicità. Non serve andare dal preside e chiedere cosa fa la scuola, quando la vittima di turno non ha più il coraggio di uscire di casa. È troppo tardi. Cominciamo a fare qualcosa tutti. Ora». 
Come l’hanno presa i ragazzi e i genitori? «I ragazzi non so, è passato troppo poco tempo, ma ne parlerò con loro. Dai genitori e dagli insegnanti sono venuti incoraggiamenti». 
«Al diavolo la privacy», dicono quelli che hanno commentato il post del dirigente. «Dobbiamo esserci di più» aggiunge un altro. «Se i genitori abdicano – conclude una madre – la scuola ha pochi strumenti».