Corriere della Sera, 2 dicembre 2015
Quel che resta dell’Amazzonia: «Stanno squartando la terra. Non ci sono più pesci nei fiumi né animali nella foresta, anche il clima è cambiato»
«Era bellissimo. Cinquant’anni fa, quando siamo arrivati per primi a lavorare la terra, quaggiù c’era solo foresta fittissima. Eravamo peones, isolati dal mondo. Dovevamo farci strada con il machete, gli indigeni Yuracare ci tiravano le frecce e ogni genere di animale, insetto e serpente velenoso era pronto ad attaccarci. Non c’era acqua, non c’era luce, si cucinava in una padella comune. Mangiavamo tartarughe e lumache». Quaggiù, nel cuore del Chapare boliviano, si entra nell’Amazzonia, il grande polmone verde del pianeta che ogni anno perde un pezzetto di sé. Doña Marina e suo marito Don José Omonte, 72 anni che sui loro volti sembrano cento, hanno ancora la zappa in mano. E non si arrendono, né al cemento delle nuove urbanizzazioni né alle pressioni dei cocaleros, che da queste parti restano padroni.
Gli Omonte abitano a Comunidad Paraiso dalla metà degli anni Sessanta. Di quell’avanguardia che per prima violò la terra vergine non è rimasto più nessuno, tranne loro. «Ma noi rispettavamo la natura, ci ritagliavamo solo lo spazio per coltivare ciò che serviva. Oggi è diverso, sono tutti nemici e stanno squartando la terra. Non ci sono più pesci nei fiumi né animali nella foresta, anche il clima è cambiato». Marina mi porta ai confini del suo appezzamento che si ostina a non voler vendere a chi ogni giorno bussa alla sua porta. Da una parte il rigoglioso «campo» degli Omonte – alberi da legname e da frutto, piante di thé e spezie – di là solo terra bruciata. Sopra le nostre teste passano due elicotteri militari. Cercano le coltivazioni illegali. «La coca è un veleno, rende la gente molle e rovina la terra», dice Marina. Anche lei in realtà, come tutti qui, ha il suo «cato» regolamentare: ogni famiglia in Bolivia ha diritto a piantare coca su un appezzamento di 40 metri per 40. Le foglie si raccolgono ogni tre mesi. In teoria per uso personale, come da tradizione ancestrale, in pratica quelle del Chapare non son buone da masticare. Finiscono su un mercato parallelo e invisibile, in qualche laboratorio chimico clandestino nella foresta, e poi oltrefrontiera.
Il 25 per cento della CO2 presente sul pianeta è immagazzinata nel suolo e nella vegetazione dell’Amazzonia, ma circa il 10 per cento della foresta pluviale è andata perduta dagli anni Sessanta a causa della deforestazione selvaggia e degli incendi appiccati dall’uomo. E secondo alcuni ricercatori, il 30 per cento di ciò che è rimasto potrebbe sparire nei prossimi 15 anni. L’area più colpita è nella zona sudorientale, fra Brasile e Bolivia. In quest’ultimo Paese, secondo i dati del ministero dell’Ambiente di La Paz, ogni anno vengono distrutti 162 mila ettari di foresta. Otto milioni di ettari sono andati perduti negli ultimi 15 anni.
Il 90 per cento degli incendi forestali sono provocati dall’uomo: provocano emissioni di gas climalteranti ma anche perdita di biodiversità, pascoli e produttività agricola. È in questo quadro, difficile e a volte contradditorio, che opera uno dei progetti di più grande successo fra quelli finanziati dalla Cooperazione italiana, «Amazonia sin fuego» (Pasf). Il programma è partito in Brasile nel 1999 grazie a un contributo italiano di 7 milioni di euro in dieci anni, con lo scopo di ridurre i roghi forestali con l’utilizzo di tecniche alternative al chaqueo, l’uso del fuoco per «pulire» e far «rinascere» il campo velocemente. L’incendio è largamente utilizzato dalle popolazioni locali, ma in pochi anni rende completamente sterile il suolo, senza contare che spesso le fiamme si espandono nella foresta, più o meno involontariamente.
Nel 2012 il Programma è stato «esportato» in Bolivia, con un contributo italiano di un milione e 550 mila euro in tre anni (altri fondi arrivano dal Brasile e dalla Cassa di sviluppo dell’America latina). Anche qui l’obbiettivo è promuovere una serie di alternative al chaqueo sia in agricoltura – attraverso sistemi agro-forestali integrati e multiculture – sia nell’allevamento – con la rotazione dei pascoli tramite barriere mobili. «Da settembre siamo entrati nella seconda fase, con nuovi finanziamenti – spiega Paolo Gallizioli, coordinatore del Pasf —. Ci concentreremo soprattutto ai confini delle aree protette dove vivono le comunità indigene originarie». E l’anno prossimo il programma partirà in Ecuador.
In Bolivia, però, il governo spinge per raggiungere l’autosufficienza alimentare. Una nuova legge aumenta da 5 a 20 ettari la superficie che ogni famiglia può deforestare legalmente e un altro decreto permette l’esplorazione petrolifera in aree protette. Nella caserma del «Regimento ecologico escuela de proteccion de parques», decine di soldati in divisa sono chini a irrigare le piantine che andranno a riforestare le sponde del fiume Espiritu Santo, nel paese di Villa Tunari. Il comandante Vargas racconta orgoglioso che qui, nell’anno obbligatorio di leva, si formano agronomi, pompieri e guardie forestali. Molti di loro vengono dalla riserva del Tipnis, dove vivono gli aborigeni. Come Maito, gli occhi duri da guerriero e il sorriso timido di uno che si chiede ancora, dopo nove mesi, che ci fa qui. È della tribù di Oromomo, che abita ancora oggi in quasi totale isolamento le profondità della foresta. Maito ha lo sguardo triste, «a casa mi coprivo con la corteccia d’albero, pescavo nel fiume, cacciavo le scimmie». Una nostalgia inconsolabile.
Il presidente Evo Morales, paladino della Madre Tierra, vuole un (ennesimo) referendum affinché il popolo decida se costruire o meno una strada che passerà proprio in mezzo al Tipnis. Gli ambientalisti rabbrividiscono al pensiero. Ma sotto quelle terre, si sussurra, c’è una miniera di ricchezze.