Corriere della Sera, 2 dicembre 2015
Eppure basterebbero le liberalizzazioni. Ma che fine hanno fatto?
Diciamo la verità, che il prodotto interno lordo cresca dello 0,9% come ha previsto il governo o dello 0,8% come si potrebbe pensare dopo le stime dell’Istat, non fa differenza. Che l’occupazione sia calata dello 0,2% a ottobre, pure. Uno 0,2 in più o in meno è irrilevante su dati che sono frutto di un’indagine campionaria. Inoltre, possiamo anche pensare che, dopo il tragico 13 novembre di Parigi, un certo rallentamento dell’economia sia inevitabile. Pier Carlo Padoan, che ancora prima di essere ministro del Tesoro è un economista, lo ha messo in conto e lo ha fatto chiaramente capire rispondendo alle domande di Lorenzo Salvia, domenica sul Corriere. Ma, anche ammettendo tutto questo, va ricordato che i segnali di rallentamento già c’erano: nel primo trimestre del 2015 il prodotto lordo era aumentato dello 0,4% rispetto al trimestre precedente; nel secondo dello 0,3% e nel terzo dello 0,2%, appunto. Ma soprattutto non cambia il dato di fondo: l’Italia continua a crescere poco. Mentre da noi il Pil è salito nell’ultimo anno dello 0,8%, negli Usa l’aumento è stato del 2,3%, in Germania dell’1,7%, in Francia dell’1,2%. Nell’area euro dell’1,6%. Anche sul fronte del lavoro la situazione è quella ben nota: in Italia lavorano meno persone (quelle in regola, almeno) che negli altri Paesi e non abbiamo ancora recuperato la crisi. Gli occupati erano 23 milioni e 200 mila nell’aprile del 2008, sono ora 22 milioni e 443 mila. È vero, sono saliti di 310 mila dal minimo del settembre 2013, ma sono ancora 800 mila meno del livello di sette anni fa. Che, quand’anche fosse raggiunto, vedrebbe comunque l’Italia con un tasso di occupazione di quasi 10 punti sotto la media Ue.
Il governo Renzi, con i massicci sgravi sulle assunzioni a tempo indeterminato e con il Jobs act, ha ottenuto un lieve aumento dell’occupazione stabile, ma si è dovuto svenare, mettendo sul piatto una quindicina di miliardi. E i dati dell’Istat dicono pure che quel poco di lavoro in più si deve agli occupati over 50, saliti da gennaio 2013 di circa 900 mila unità, grazie soprattutto all’incremento dell’età pensionabile, mentre gli under 50 sono calati di quasi 800 mila. Infine, un dato dice più di tutto: i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato erano a dicembre 2014, l’ultimo mese prima degli sgravi, 14 milioni e 587 mila; sono cresciuti finora di appena 128 mila unità, a 14 milioni 715 mila. Insomma, nonostante gli sforzi, il bottino è magro. Lo stesso governo se ne è reso conto e ha drasticamente tagliato la decontribuzione per il 2016. Gli sgravi e l’abolizione dell’articolo 18 hanno aumentato la propensione ad assumere, ma l’assunzione vera e propria scatta solo a fronte di un aumento della domanda.
Dopo il Jobs act l’agenda delle azioni di governo da intraprendere è ancora fitta. E deve avere come obiettivo la competitività delle aziende. Per favorirla bisogna portare avanti le liberalizzazioni, che invece sembrano finite in secondo piano; ridurre il costo del lavoro in maniera strutturale e non episodica (perché, per esempio, non si usano a questo fine le decine di miliardi dei fondi europei, invece di sprecarli?); incentivare gli investimenti privati e rilanciare quelli pubblici in infrastrutture; migliorare la scuola, l’università e la formazione. Aziende più competitive creeranno più occupazione e il Pil crescerà. Il resto è contorno.