Mente&Cervello, 1 dicembre 2015
La psicosi del cibo che ci fa comprare inutili prodotti senza glutine o senza lattosio
L’ultima novità sugli scaffali del supermercato sono le gallette di riso senza glutine. Peccato che ne siano prive da sempre. Evidentemente un bel bollino sulla scatola è un ottimo incentivo all’acquisto. La nuova tendenza alimentare ormai è «senza», prevalentemente glutine o lattosio.
È fuori discussione che le intolleranze alimentari esistano davvero. E per chi ne è colpito, dovendo rinunciare del tutto o in parte a determinati ingredienti, grazie ai bollini «senza» la spesa è diventata molto più facile. Tuttavia si osserva un fenomeno curioso: ci sono persone che evitano pane, latte o altri alimenti con effetti ritenuti a torto devastanti, anche se dal punto di vista medico non ne hanno la necessità e i prodotti senza glutine o lattosio non portano loro alcun vantaggio dimostrabile.
► Sotto accusa
Ormai ci stiamo abituando ad accusare l’alimentazione per ogni nostro malessere. A chi al mattino si sveglia con un cerchio alla testa dopo avere bevuto una bottiglia di rosso in compagnia viene facilmente il dubbio di essere intollerante all’istamina. Al contrario, dopo avere rinunciato a determinati alimenti, molti sostengono di notare effetti miracolosi: chi smette di bere il latte con il lattosio all’improvviso si sente leggerissimo.
Così, nel 2012 in Germania gli acquirenti di prodotti senza lattosio sono triplicati rispetto al 2007. Queste persone con sensibilità alimentari (vere o presunte) sono ormai una buona parte della popolazione, come ha dimostrato nel 2014 un sondaggio eseguito su quasi 2500 volontari dall’Istituto di ricerche di mercato Ears and Eyes per conto di «Spiegel online». Secondo l’indagine, circa un tedesco su quattro evita alcuni alimenti perché crede di non tollerarli: l’11 per cento non consuma vino rosso, formaggio e alcuni prodotti a base di carne e pesce perché contengono istamina. Ma la stessa esistenza di un’intolleranza all’istamina è tuttora oggetto di un acceso dibattito tra gli esperti.
Il 9 per cento degli intervistati ha dichiarato invece di evitare il glutine, in parte o del tutto. Eppure solo lo 0,3 per cento circa della popolazione tedesca soffre di celiachia,
la malattia dell’intestino che costringe a rinunciare totalmente al glutine. Non è ancora chiaro se esista anche una sensibilità verso questa sostanza. Infine, il 13 per cento dei partecipanti all’indagine ha dichiarato di limitare o evitare del tutto il consumo di alcuni prodotti come le arachidi a causa di un’allergia. Secondo una stima degli esperti, però, solo il 2-3 per cento circa della popolazione soffre di allergie alimentari.
È paradossale: più siamo oggettivamente sani, più ci sentiamo malati. In una ricerca sull’argomento, Winfried Rief, docente di psicologia all’Università di Marburg, ha intervistato alcuni tedeschi chiedendo loro se vedono legami tra il nostro stile di vita moderno e la salute: solo il 6 per cento degli intervistati ha risposto di non farsi problemi.
La maggioranza teme che la vita frenetica dei nostri tempi sia dannosa per l’organismo, da vari punti di vista. Molti si sentono minacciati soprattutto dagli alimenti geneticamente modificati, oppure pieni di ormoni, pesticidi e antibiotici, e dal buco nello strato di ozono. Chi è più afflitto dalle cosiddette preoccupazioni moderne per la salute riferisce più spesso sintomi fisici come dolori addominali, ma anche sensazioni di spossatezza, stanchezza e scoraggiamento. «Le preoccupazioni, a volte esagerate – ipotizza Winfried Rief – possono provocare depressioni e veri e propri disturbi fisici». Inoltre i sintomi accusati scatenano con ogni probabilità una crescente preoccupazione nei pazienti, e dunque una maggiore volontà di attribuire una causa a questi disturbi. Non è chiaro quindi se nascano prima le preoccupazioni o i sintomi.
► Disagio e sfiducia
Secondo Rief, dietro questi disturbi si nasconde soprattutto la paura delle conseguenze della vita moderna. Il mondo è diventato complesso, e il rapido progresso tecnologico mette a disagio molte persone. Chi è convinto di avere ormai perso il legame con le nostre radici sviluppa un’enorme sfiducia, inizia a scorgere pericoli dappertutto e si preoccupa dell’eventualità di finire intossicato dall’elettrosmog o dai veleni nei cibi.
Naturalmente era meglio una volta, sono convinti molti consumatori, quando la nonna cucinava con la stufa, solo con gli ingredienti provenienti dal suo orto. Questa nostalgia si può anche quantificare: oltre il 40 per cento dei tedeschi teme che oggi in generale i prodotti alimentari siano meno sani e contengano più sostanze nocive rispetto a vent’anni fa. Eppure in questo arco di tempo molte cose sono migliorate: i pesticidi in frutta e verdura ormai sono ridotti al minimo. Nei casi in cui ne vengono rilevate tracce, si tratta quasi sempre di quantità inferiori al limite previsto dalla legge, quindi a un livello non pericoloso per la salute.
Oggi, secondo l’Istituto federale per la valutazione dei rischi (BfR), le tracce di diossina presenti nel nostro organismo sono nettamente inferiori rispetto a trent’anni fa. Lo dimostrano per esempio le analisi compiute regolarmente sul latte materno: nel 2009 la concentrazione di diossina era solo un sesto rispetto al 1990. E non bisogna più preoccuparsi neanche degli ormoni nella carne, visto che negli Stati che fanno parte dell’Unione Europea il loro uso per l’alimentazione del bestiame è stato proibito dal 1988.
► Scetticismo verso gli esperti
In effetti la nostra valutazione dei rischi legati all’alimentazione è poco (o per niente) razionale, e spesso ci sbagliamo. Per esempio, i rischi erroneamente ritenuti nuovi – come quelli legati al consumo di glutine – in genere ci appaiono molto minacciosi, mentre stiamo perdendo di vista quelli già noti da tempo, come la salmonella. Inoltre tendiamo a preoccuparci soprattutto per i rischi antropogenici, come i conservanti, sottovalutando invece le minacce naturali, per esempio alcune sostanze tossiche presenti nelle piante. Probabilmente gli sviluppi tecnologici hanno rafforzato le preoccupazioni: negli ultimi decenni gli strumenti di misurazione sono diventati sempre più precisi, spiega Mark Lohmann, dell’Istituto federale per la valutazione dei rischi: ormai si possono rilevare anche concentrazioni minime di sostanze nocive nei prodotti alimentari. «Ciò non significa però che le sostanze scoperte in quantità minime siano dannose, né che non ci fossero già prima. Forse non si potevano ancora misurare con una simile precisione».
Alcuni ricercatori studiano i disturbi reali provocati dal timore degli alimenti dannosi. Ormai il «sospetto della gente nei confronti della vita moderna» è cresciuto a tal punto da avere «offuscato la visione della propria salute», ha scritto già nel 2002 lo psicologo neozelandese Keith Petrie, dell’Università di Auckland. E si è sviluppato un forte scetticismo nei confronti degli esperti: non ci si fida più della loro opinione. In casi estremi questo atteggiamento porta a un «pensiero complottista» e a uno «stile di vita moderno paranoico».
► Effetto nocebo
Keith Petrie si occupa del fenomeno dell’ipersensibilità. In Nuova Zelanda, dove vive e lavora, sono in molti a temere gli infrasuoni, suoni molto bassi emessi dalle turbine eoliche e non percepibili dall’orecchio umano. Sebbene non sia dimostrato alcun effetto dannoso, molti ritengono che gli infrasuoni provochino malattie. E spesso chi abita vicino a un impianto eolico accusa dei disturbi. Così Petrie ha avuto un’idea: ha invitato 54 persone a sottoporsi a un test e ha mostrato loro alcuni filmati con informazioni sugli infrasuoni. Alcuni partecipanti hanno visto filmati che avvertivano dei relativi pericoli, altri invece hanno assistito a relazioni neutrali. I ricercatori hanno poi sottoposto tutti i soggetti per dieci minuti a infrasuoni veri, e poi per lo stesso tempo a infrasuoni simulati. Ecco il risultato sorprendente: l’infrasuono fittizio provocava gli stessi disturbi di quello vero, ma solo sui volontari che prima avevano visto i filmati allarmanti. In entrambi i casi riferivano sintomi più frequenti e forti.
Il fenomeno presentato da Keith Petrie è detto dai ricercatori effetto nocebo: mentre con l’effetto placebo un’aspettativa positiva determina un effettivo miglioramento della salute, alcuni disturbi possono avere origine semplicemente da un’aspettativa negativa. Quindi chi si lascia intimorire da pagine web, libri o articoli che diffondono il panico raccontando di fantomatici rischi per la salute può ammalarsi anche soltanto a causa di queste sue preoccupazioni. Se poi riscontra su di sé alcuni sintomi, in realtà innocui, e ne cerca le cause, può finire in un circolo vizioso in cui paure e disturbi continuano a rafforzarsi a vicenda.
Quindi la regola di base più importante in caso di qualunque dolorino è: non cercare su Google. Ma quasi nessuno la rispetta. Circa il 60 per cento degli utenti di Internet cerca informazioni sulla salute in rete. Tra i medici si parla ormai di «cybercondria»; questo termine, che compare perfino in numerose pubblicazioni scientifiche, indica ciò che succede quando chi prova disturbi generici poco chiari cerca su Google i propri sintomi, per poi sentirsi davvero malato.
► La sindrome di Google
L’uso dei motori di ricerca può rafforzare le preoccupazioni sulla salute, come ha confermato anche un sondaggio condotto dalla Microsoft su 500 persone. Il «dottor Google» fa ammalare soprattutto se gli utenti consultano molte pagine Internet, se in esse le informazioni sono formulate in modo sensazionalistico e se gli utenti tendono a farsi prendere dal panico invece di cercare spiegazioni razionali per i propri disturbi. La cybercondria colpisce soprattutto chi non riesce a sopportare l’insicurezza.
Se si inserisce in un motore di ricerca «dolori addominali» si arriva presto in portali di medicina dove il malessere è attribuito per lo più all’ipersensibilità a lattosio, fruttosio, glutine, istamina o altre sostanze. Negli elenchi di sintomi i pazienti possono segnare quelli che li riguardano. Ma spesso proprio per le intolleranze alimentari i sintomi sono così generici che praticamente chiunque vi si può riconoscere. Anche una persona sana ogni tanto può provare dolori addominali, brontolii dello stomaco, spossatezza e meteorismo. «I pazienti vanno dal medico di base, gli mettono sulla scrivania un articolo su un’intolleranza o una pagina web stampata e chiedono: “Non è quello che ho anch’io?”», racconta Johann Ockenga, docente di medicina interna e gastroenterologia alla Clinica universitaria di Brema. Poi è difficile distoglierli da questa loro convinzione. «Noi medici in questi casi parliamo ormai di sindrome di Google».
► La paura del momento
Attualmente una delle maggiori preoccupazioni è legata ai rischi derivati dal consumo di grano. Libri come La dieta zero grano, di William Davis, e La dieta intelligente. Perché grano, carboidrati e zuccheri minacciano il nostro cervello, di David Perlmutter, hanno toni drammatici che non lasciano indifferenti. Contengono frasi come «chi mangia grano muore prima» o «i cereali moderni distruggono il cervello», che diffondono ansia e terrore.
In realtà molte affermazioni sono banali e risapute da tempo: chiunque sa che il consumo eccessivo di pane, pasta e biscotti fa ingrassare e aumenta il rischio di malattie secondarie. Ma lo stesso vale anche per il salame o il lardo. La tesi che il grano, o meglio il glutine in esso contenuto, danneggi il cervello non è sostenibile scientificamente. Eppure la diffusione del panico funziona: milioni di persone hanno comprato questi manuali, che negli Stati Uniti e in Germania sono diventati fortunati bestseller.
Navigando tra i forum on line si può intuire quanti lettori si sforzino di seguire i consigli nutrizionali degli autori di questi volumi. Davis e Perlmutter consigliano ai loro seguaci di mangiare pochi carboidrati e molta carne. Le regole dietetiche però sono così severe che probabilmente molti non resistono a lungo. Ma chi segue questi consigli, e ogni tanto non resiste a un pezzo di pane o a una fetta di torta, avrà paura di conseguenze gravi.
Jessica Biesiekierski e i suoi colleghi della Monash University di Melbourne hanno dimostrato che la paura del glutine è sufficiente a provocare disturbi reali. A questo scopo la ricercatrice si è messa ai fornelli con i suoi assistenti e per varie settimane ha cucinato per persone che riferivano una sensibilità al glutine. Una parte dei soggetti ha ricevuto una dieta senza glutine, gli altri invece alimenti che ne contenevano poco o tanto. Né i partecipanti né i ricercatori sapevano quali preparazioni venivano somministrate ai diversi gruppi. Tutti e tre i piatti erano così simili in termini di gusto, consistenza e aspetto che gli «assaggiatori» potevano indovinare solo per caso se contenessero glutine oppure no. Incredibilmente i disturbi come nausea e dolori addominali si sono aggravati in tutti i partecipanti, sebbene solo alcuni di loro fossero davvero venuti in contatto con il glutine. Evidentemente il solo timore di averlo ingerito provocava sintomi reali.
Quindi chi, dopo aver letto libri come La dieta intelligente, da un lato teme che pane o pasta gli facciano male ma dall’altro non riesce a mantenere una dieta rigorosa, potrebbe facilmente accusare i sintomi annunciati da Perlmutter: ansia, difficoltà di concentrazione, mal di testa.
► Sensibilità chimica
Le isterie sulla salute vanno e vengono: negli anni ottanta e novanta ha dato problemi a molti la cosiddetta sensibilità chimica multipla. Ancora oggi in alcune pagine web il quadro clinico è presentato come una diagnosi sicura: la multiple chemical sensitivity (MCS) sarebbe una reazione eccessiva del sistema nervoso centrale a varie sostanze e
agenti inquinanti come profumi, solventi, detersivi e veleni presenti negli spazi abitativi, sostiene il portale della casa editrice DocMedicus. Mentre la maggior parte delle persone si accorgerebbe appena di queste sostanze, in soggetti sensibili a volte potrebbero provocare danni gravi.
A lungo anche gli specialisti si sono occupati della sensibilità chimica: medici e scienziati hanno preso sul serio i disturbi dei pazienti e hanno analizzato i residui delle sostanze nei loro fluidi corporei, ma sono arrivati alla conclusione che le quantità erano decisamente troppo basse per poter provocare effetti di qualche tipo. Renate Wrbitzky, della Facoltà di medicina di Hannover, ha pubblicato con alcuni colleghi un position paper secondo cui finora non è stato possibile, con alcun tipo di test, misurare parametri fisiologici o biochimici collegati a questi sintomi. Una diagnosi in senso scientifico non è possibile. Niels Birbaumer, docente di psicologia medica all’Università di Tubinga, ha attribuito la sensibilità chimica multipla all’effetto nocebo: a suo parere era la paura delle sostanze, non il contatto con le stesse, a provocare i disturbi.
► Imparare dal passato
Sostenere che un alimento sia in grado di distruggere lentamente il nostro cervello è un modo efficace di attirare l’attenzione. Negli anni novanta il neurochirurgo statunitense Russell Blaylock ha spaventato il mondo con il suo libro Excitotoxins: The Taste That Kills. La sua tesi: una sostanza presente nel cibo distrugge il cervello. All’epoca non si trattava del glutine, ma del glutammato, un esaltatore di sapidità. Secondo l’autore, le sostanze tossiche stimolano le cellule portandole a reagire eccessivamente e ad autodistruggersi. Il glutammato sarebbe una «bomba a orologeria neurologica» e ci porterebbe alla morte sotto forma di Parkinson, Alzheimer o corea di Huntington. Questo scenario spaventoso ha dominato per anni l’opinione pubblica, e i suoi effetti persistono ancora: molti infatti ritengono pericoloso il consumo di glutammato. Eppure diversi studi non hanno rilevato alcun effetto di questo tipo e istituzioni come l’Organizzazione mondiale della Sanità dichiarano sicuro il glutammato.
Quindi, prima di passare alla dieta senza glutine, forse può essere utile guardarsi indietro: abbiamo superato senza danni i grandi allarmi del passato, ma a volte dimentichiamo di fare tesoro della nostra esperienza.