La Gazzetta dello Sport, 1 dicembre 2015
Panenka, l’uomo del cucchiaio
Il mondo negli ultimi 40 anni è cambiato due, tre, dieci volte ma allo stadio sono sempre loro tre: Antonin, il pallone e la porta. Antonin, i suoi baffi, il pallone e la porta. Panenka vive a Praga, non ha mai smesso di tifare Bohemians e a 67 anni (domani, 2 dicembre) più che un ex calciatore è un modo di vivere. Aveva talento e ha giocato per la Cecoslovacchia, ma non sarà mai ricordato per questo. Una volta la Fifa chiese a Pelé di scegliere i 100 più forti di sempre, O Rei si allargò a 125 ma per Antonin niente, neanche un pensiero. Un giornale di 30 anni fa: «Per Panenka “lunatico” è un eufemismo». Era molto più che discontinuo, in compenso ha inventato un genere. Nella finale dell’Europeo ’76 Germania Ovest e Cecoslovacchia erano pari in tutto, anche ai rigori, poi Uli Hoeness sbagliò il quarto dei tedeschi e Antonin usò il «cucchiaio» per segnare il quinto e chiudere tutto. Mai fatto prima ad alto livello. Pelé è stato 10 volte più forte ma non ha mai messo il copyright su un colpo. Antonin sì, se dici «ho fatto un Panenka» gli appassionati capiscono: il rigore con lo scavino.
È vera quella storia del cioccolato e della birra?
«Vera, certo. Io e il mio portiere, in quella porta, ci sfidavamo a fine allenamento: 5 rigori, io dovevo segnarli tutti, a lui bastava pararne uno. Se avevamo sete ci giocavamo una birra o cioccolato o qualche soldo. Per vincere ho cominciato a tirarli in quel modo. Lenti, a parabola, centrali».
Viktor quel giorno del ’76 era il portiere della Cecoslovacchia. Ha sempre detto di averle chiesto mille volte di calciare il rigore normalmente.
«Eravamo compagni di camera, ne avevamo parlato la notte prima. Lui era un pessimista, diceva che il Panenka era troppo rischioso: “Se lo tiri così e lo sbagli, ti lascio fuori dalla stanza”. Ma io avevo deciso da mesi».
Che sarebbe successo se Sepp Maier fosse rimasto fermo e lo avesse parato?
«Ho letto che avrei avuto conseguenze pesanti, che mi avrebbero portato nelle miniere ma non lo so. Ho sempre detto che forse avrei passato i 30 anni seguenti alla CKD, la fabbrica in cui da ragazzo lavoravo il ferro. Erano anni diversi...».
Anni di comunismo. Come si possono spiegare ai ragazzi nati nei Novanta o dopo il Duemila?
«Nel regime non era permesso studiare quello che volevi e potevi andare a giocare all’estero solo se avevi 32 anni e 50 partite in nazionale. Non posso dire che fossimo sempre sotto pressione, però quando andavamo nell’Europa occidentale venivamo accompagnati da uno sconosciuto. Sapevamo che era una spia».
E la vita quotidiana?
«Io ho iniziato a 9 anni ai Bohemians e ho speso la mia carriera qui fino ai 32. Un club aveva una fabbrica collegata e questo per me voleva dire, almeno all’inizio, lavorare come apprendista alla CKD. Produceva pezzi dei tram, motori».
Oggi magari Panenka verrebbe acquistato da una squadra italiana a 17 anni.
«La prima volta che sono uscito dal Paese sono venuto proprio in Italia, avevo 17 o 18 anni. La mia prima avversaria italiana fu la Juve e ricordo anche una partita con una squadra più piccola. Gli italiani erano più vecchi e ci stracciarono, ma quando vennero qui a Praga per la rivincita furono sfortunati: li fecero giocare contro la prima squadra. Undici a zero».
Qual è la differenza tra quel calcio e questo?
«Ho saputo che Cech, all’Arsenal, guadagna in una settimana molto più di quello che io ho preso in una carriera. Penso che le nostre vite siano state molto più belle ma questa convinzione non mi dà da mangiare. Per noi l’unico vantaggio era non dover lavorare, anche se in fondo col calcio ho guadagnato abbastanza. Ogni momento in cui ho giocato sono stato felice».
In campo ci sarebbe ancora spazio per Panenka?
«Il calcio è più veloce, più aggressivo, una volta si correvano 6 km a gara, oggi si va oltre i 10. I giocatori sono più universali e meno creativi, ma ho ancora qualche preferito. Tra gli italiani, Rivera, Antognoni e Totti. Ragazzi come me, che volevano divertirsi e divertire».
C’è una squadra per cui avrebbe voluto giocare?
«Da ragazzi non avevamo informazioni sui tornei stranieri, però una volta lo Sparta giocò col Peñarol e ricordo che il nome suonava attraente. Ora il Barcellona sarebbe adatto al mio calcio, anche se lì hanno paura a calciare da lontano. A me piacciono anche i tiri da lontano, non solo i passaggi corti».
Antonin Panenka a 66 anni ha ancora un sogno?
«Vorrei che questo stadio che noi chiamiamo Dolicek, “piccolo buco”, diventasse di proprietà dei Bohemians. Io vorrei giocare fino a 100 anni e segnare un gol di testa. La gente non lo sa ma io tiravo angoli e punizioni, non so nemmeno che cosa si prova a segnare di testa».
Pelé una volta ha detto: «Panenka, per tirare un rigore così, dev’essere un genio o un matto».
«No, nessuno dei due, era solo il miglior modo di fare gol. Piuttosto una volta un francese vide il Panenka e scrisse: “Per la prima volta qualcuno ha espresso un’idea non con la testa, ma coi piedi”. Non so chi fosse, ma questa mi piace.