il Fato Quotidiano, 1 dicembre 2015
Lesbo batte Lampedusa. La triste vittoria dell’isola dei disperati
In cielo gabbiani bianchi e corvi neri. Da lontano nel tappeto buio del mare puoi solo riconoscere le luci: quelle rosse dei pescatori, quelle verdi della Guardia Costiera. E le luci bianche dei migranti: a braccia alzate, gli smartphone accesi verso l’alto, sventolati come bandiere luminose nelle tenebre finché non si vede terra. Fari delle auto illuminano i volontari che agitano le mani per non far infrangere i gommoni sulle rocce taglienti di Lesbo. Luce è salvezza. Ci sono totem di pali e salvagenti sulla spiaggia, colline di giubbotti dove si riflette la luna e aiutano a seguire la rotta. I trafficanti mettono metà della benzina necessaria per arrivare a riva sui gommoni scadenti, di 5 o 7 metri, che sono in balia delle correnti. Rompono il timone così non si può tornare indietro.
I soccoristas spagnoli di Proactivia portano gli scampati a riva, appena superate le acque turche; iracheni, siriani, curdi, molti in ipotermia, insieme a volontari israeliani e tedeschi, sulle spiagge da Molivos a Skalaskaminia disseminate delle macchie rifrangenti dei giubbotti. A Lesbo, primo lembo d’Europa, ce ne sono tonnellate. La chiamavano Lampedusa greca. Con l’aumento degli sbarchi del 500%, sarà Lampedusa a esser chiamata la Lesbo italiana.
Di fronte la Turchia è una striscia male illuminata, falò dei siriani nascosti nei boschi che si scaldano senza cibo né acqua per giorni in attesa di partire. Ieri son stati arrestati 3 trafficanti e 1.300 migranti. Dai 40 ai 60 gommoni al giorno, circa 50 persone a bordo su ognuno, toccano terra, soccorsi da un altruismo basato su una chat di WhatsApp e telescopi sui picchi di Lesbo.
I migranti pagano dagli 800 ai 2.800 dollari per 40 minuti di viaggio, 250 o 300 per il giubbotto di salvataggio. Al largo c’è un’Atlantide di barche, come enormi lische di pesce dove rimangono incastrati passaporti, patenti, libri di favole, foto, rosari e Corani. Corpi che tornano a galla che nessuno reclama.
Mohamed Mustafa, medico di Kabul, ha pagato 2mila dollari: “A Izmir i trafficanti sono ombre senza nome. Sui gommoni ti fanno salire in fretta, anche se pensi che morirai”. Con lui sbarcano yazidi in fuga dall’Isis, 7 sorelle bionde con gli occhi azzurri di un padre dai baffi bianchi. Un migrante è stato legato a un albero per 3 giorni, gambe e costole rotte, d’esempio per chi non voleva salire a bordo sotto la tempesta.
Pattuglie di volontari si danno il cambio lungo chilometri di spiaggia: “Have a good shift”, fai un buon turno, si salutano greci, americani, spagnoli, olandesi e soprattutto norvegesi. “Questi giovani sono come le brigate internazionali durante la guerra civile spagnola, inizio di tutti i fascismi d’Europa. Siamo tornati al secolo scorso”, dice Rosio, Madrid, 45 anni. “Intorno ai disastri si raduna sempre il meglio e il peggio dell’umanità” dice Thanos Vasilakos, “the LasVegasBoy”: viveva nella città-casinò e ora è qui, decine di salvataggi dopo, insieme all’ex capitano della nazionale greca di rugby, Nikos Mavreas, nella Guardia costiera volontaria. Quando trovano cadaveri di bambini scattano foto sperando che qualcuno verrà a chiedere di loro. Li avvolgono nelle coperte termiche dorate e li portano al cimitero di Mitilini, dove da settimane non c’è più spazio.