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 2015  dicembre 01 Martedì calendario

L’ultimo sconosciuto amore di Gabriele D’Annunzio

Il numero in edicola della rivista «Arbiter» contiene un’intervista a Martino Zanetti,imprenditore e titolare di 460 lettere inedite di D’Annunzio donate ora al «Vittoriale». Per gentile concessione dell’editore ne pubblichiamo l’articolo.

Due grandi storie d’amore, focose e tormentate, che ruotano intornio alla vita di Gabriele D’Annunzio. Anzi, tre storie.
La prima ha come protagonista la diciassettenne Giselda Zucconi, all’epoca in cui Gabriele è Gabriele e basta: non è ancora il Vate, né tantomeno il Comandante. Ha 18 anni ed è un collegiale appena arrivato a Roma da Pescara, passando per il prestigioso liceo Cignonini di Prato: uno sconosciuto con grandissime ambizioni appena sbarcato nel grande gioco della vita. Giselda, Elda nelle lettere, è la figlia di Tito, suo docente di lingue al collegio, e ha «occhioni erranti, misteriosi e fondi come il mare». La seconda storia porta sulla ribalta, mezzo secolo più tardi, la malinconica e tragica passione della trentenne contessa Evelina Scarpinelli Morasso per un D’Annunzio ormai crepuscolare, furiosamente rassegnato, a 75 anni, ad arrendersi a un fisico che non regge più alle sfrenate fantasie che la sua mente continua a produrre, più vivide che mai, pur consapevole del fatto che «la vecchiaia rende melenso e vile anche un eroe».
La terza storia d’amore è invece tutta maschile. E racconta dell’innamoramento adolescenziale, diventata poi passione colta e matura, che ha indissolubilmente legato al Comandante l’imprenditore veneto Martino Zanetti, discendente di una «stirpe di mercanti», così lui stesso la definisce, che affonda le sue radici nella Venezia del XVII secolo, che oggi lega il proprio cognome a un impero del caffè: Martino guida la Hausbrandt, mentre il fratello Massimo è a capo della Segafredo. Ma la sua storia proibita Martino l’ha conservata «nel cassetto della mia scrivania», racconta, «per trent’anni»: 232 lettere scritte dal giovane D’Annunzio a Giselda, e un plico di altre 228 epistole vergate con la grafia grossa della vecchiaia per Evelina, che nel delirio erotico-letterario diventa Manah, o Maya, o Titti. In totale 3mila fogli inediti, un enorme patrimonio di cultura e di storia di cui gli storici avevano perso le tracce trent’anni fa, quando un ignoto acquistò l’epistolario dal collezionista Mario Guabello, trascinandolo nell’oblio. «Fu allora per me una conquista, un modo per essere più vicino che mai all’uomo che mi aveva in qualche modo e per sempre cambiato la mia vita», racconta Martino. Una consonanza di spirito quella che si è sviluppata tra l’imprenditore e il Vate. Martino, nonostante guidi un’azienda che distribuisce caffè in 70 Paesi nel mondo (oltre a essere proprietario della birra Theresianer e produrre nella Marca Trevigiana raffinati vini con l’etichettaTenuta Col Sandago – Case Bianche) ha un approccio alla vita da artista rinascimentale: cultore delle lettere e del teatro (Shakespeare, su tutti),suona il pianoforte, dipinge. «Nel genio multiforme di D’Annunzio ho trovato uno specchio di quella che io considero la completezza dell’uomo. Fremo quando sento dire che D’Annunzio era un poeta, o uno scrittore, o un politico... Lui era tutto questo insieme, e molto di più. È con Dante, Petrarca, Boccaccio e Leopardi uno dei cinque grandi assoluti del genio italico, anche se un certo modo di trasmettere la cultura, dal Dopoguerra aoggi, ha messo in atto una riuscitissima damnatio memoriae. D’Annunzio uguale fascismo, e quindi doveva sparire dalla cultura ufficiale. Eppure trovatemi oggi un artista e un pensatore più contemporaneo di lui...». Martino, dopo aver compulsato per decenni queste lettere rivelatrici, può dire di conoscerlo nel modo più intimo. «Quelle lettere le tenevo sempre vicino a me, le ho lette, rilette, studiate, fatte mie. Poi, ho sentito che era arrivato il momento per farle tornare a casa».
Decisivo nel portare a questo passo un altro colpo di fulmine, pure questo al maschile: l’immediata sintonia di pensiero scattata tra Zanetti e Giordano Bruno Guerri, il più accanito biografo di d’Annunzio e, dal 2008, presidente della Fondazione del Vittoriale. «Questa donazione, la più importante di tutta la storia del Vittoriale, nasce da una semplice mail di nemmeno tre righe: “Buongiorno, sono Martino Zanetti, avrei piacere di poterla incontrare”, e poche altre parole». Nulla che desse il minimo indizio non solo sulla meraviglia di questi manoscritti (oltre ai due epistolari, la donazione comprende anche la stesura originale del Cola di Rienzo, «un manoscritto interessantissimo, pieno di cancellature e riscritture, che darà lavoro ai filologi per anni», dice Guerri), ma soprattutto «sulla splendida personalità e grande cultura di Martino Zanetti, con il quale è nato un rapporto di amicizia». Dallo studio delle epistole «andranno rivisti molti aspetti della biografia di D’Annunzio», conferma Guerri. Soprattutto dei suoi esordi giovanili sulla scena romana. «Altro che giovanotto intimidito dalla mondanità della Capitale: il Comandante aveva già ben chiaro in mente il suo percorso, la potenza delle sue qualità e gli obiettivi che voleva raggiungere. Questo, dalle lettere alla Zucconi, esce in maniera netta». È il 20 marzo 1882, e D’Annunzio scrive all’amata: «È fatale che io debba vivere così, sempre in agitazione, in un’irrequietezza indescrivibile, assetato di desiderio, di mille desideri l’uno più strano ed alto dell’altro, dilaniato dall’amore, torturato dall’arte, pazzo sognatore che reco il cuore palpitante tra la folla impassibile, e cerco come per fatalità, in nuove cose tormenti nuovi, e vivo nel disordine, e lavoro con la stessa foga con cui tiro di spada, o poltrisco in torpori lunghi e spossanti, e languo nelle penombre lente dei salotti, e bevo avido l’aria vasta e la fulgida luce, prodigo, scialacquatore, temerario, generoso, affettuoso, innamorato di te, triste, gaio, da un’ora all’altra, indomabile e indomato». È un manifesto di tutto quello che nei cinquant’anni successivi sarà la sua vita. Vita e vitalità che vedremo spegnersi, sempre nero su bianco, nel luglio del 1937, a pochi mesi dalla morte. Alla sua Evelina-Manah che lo provoca scrivendogli «Indosso una veste spumosa, fiorita come il tuo giardino», un D’Annunzio al crepuscolo risponde: «Tu non puoi amarmi. Ed io sono tanto decaduto che non mi ricordo, in una cabala d’or è molti anni, d’aver scelto Amare senza essere amato. Voglio morire».