La Stampa, 1 dicembre 2015
Tra le rovine delle prigioni di Domenico Quirico
Un pallido ineguale mondo disseccato mi accompagna verso Yabrud, dove sono stato prigioniero degli islamisti siriani. Un mondo pallido di siccità, inumano: come avanzare sul letto di un mare immenso seccato da incalcolabili età e ora più arido di ogni altro deserto; eppure che ancora ricorda il fondo del mare con le sue colline e i suoi picchi e le sue piatte pianure tutte fratturate come di fango secco.
Chiudo gli occhi e penso: eppure devi scoprire che razza di ferita è la tua due anni dopo e se ritrovi la tua vecchia prigione.
Ma tutto ciò, ora che sto per arrivare, mi sembra freddo e indifferente come se mi avessero portato attraverso il museo di una città morta, attraverso un mondo che mi è non meno estraneo che indifferente; benché i miei occhi lo riconoscano, i miei occhi soltanto.
Sfioriamo Tal, città di cinquantamila abitanti, le case della periferia sfumano sulla grande strada verso Nord, verso Aleppo.
Ad Aleppo dove c’è la postazione dei militari: «Per metà è in mano agli islamisti, e a destra in lontananza vedi quei fumi alti? Bombardamenti! Quella è Duma, Isis è anche lì...».
La stessa salita
Chi mi accompagna racconta la vicinanza di questa guerra con voce suadente, come un confessore accorato e stanco quando attinge dal suo ministero la pazienza che l’aiuti a ripetere inattuabili ammonimenti. Come se un malefico astro avesse crocefisso questa gente alla infelicità.
Inizia la salita per Yabrud, quando ho percorso questa strada sul cassone di un pick up, prigioniero, era fine maggio, i ciliegi erano gonfi di frutti. Quando partii l’estate aveva bruciato tutto e ancora molti mesi mi attendevano. Le cose, come tutto ciò che ormai giace salvo nel mosaico di ciò che è accaduto, non mancano dunque all’appuntamento, si danno a me nella lealtà di ciò che non può esser altro da ciò che è stato. E chiedono solo di venir riconosciute, oscuramente, come ansiose di placarsi nella coincidenza della memoria con cui io le sto ricercando.
Amare senza perdonare
Le porte della città, ingenua, una cerniera, un grande respiro prima di liberare tutto in uno sforzo delirante. Yabrud sembra intatta, è incredibilmente intatta. Bancarelle di frutta, grassa e brillante, imperlata d’acqua. La piazza con un goffo monumento – mappamondo tenero e commovente, i palazzi gialli, le cupole delle moschee, donne per la strada, i gatti. Una bellezza che dà il gusto della povertà. I miei passi ritmano i ricordi. È quasi inutile chiedere: so dove trovare la chiesa, la splendida cattedrale di Costantino ed Elena dove, allora, incontrai padre George.
Adesso il dolore c’è. Vorrei che svanisse al più presto e sparisse anche il ricordo. Ecco il lungo muro bianco, le possenti pietre del tempio romano con le iniziali di Caligola che i cristiani, furenti, trasformarono in basilica. Eternità dei fanatismi… Qui sentivo insieme dalla mia cella le campane della chiesa e gli appelli del muezzin. Non so verso cosa inclinare, amo tutto questo con rimpianto, amo con ferocia e non perdono alla Siria di avermi costretto a dei sentimenti fra i quali non mi è consentito scegliere.
Se almeno potessi starmene indifferente a guardare le sue piaghe!
La Madonna e Hezbollah
Padre George esce dalla canonica e mi abbraccia: «Hai solo meno capelli di allora...». Sento tra le mie braccia quel fragile busto, il respiro breve che sale a sfiorargli la barba.
Sentire il suo racconto annegare nel suo volto appassionato di prete e questo è il miracolo senza passioni, senza più orgasmo di agguati del tempo.
«Quando tu eri qui ostaggio, comandavano i banditi qui, di Yabrud, pagavi e ti lasciavano vivere. Poi sono arrivati quelli dell’Isis. Mi ha detto uno, dammi duecentomila dollari o ti uccido, prete! Gli ho risposto che con quel denaro si potevano far studiare almeno cento preti. Poi un giorno ho nascosto le icone più preziose della chiesa nel baule dell’auto e sono fuggito a Damasco. Quarantacinque giorni sono rimasto con gli stessi vestiti. Gli Hezbollah hanno liberato la città, gli altri sono fuggiti senza distruggere nulla. La madonna e Hezbollah hanno fatto il miracolo».
Entro nella chiesa: i volti dei santi e degli angeli rimasti sono tanto celesti da far credere che il giorno abbia anch’esso oltrepassato la soglia e sia venuto a porre all’ombra il suo cielo puro. In una cappella una riproduzione della Madonna di Raffaello donata a questa chiesa nell’ottocento da Francesco Giuseppe: nello sguardo convergono tutte le possibilità di disperazione e di amore.
Padre George mi porta a visitare la chiesa nuova, frenetico percorre le distruzioni: le immagini sacre decapitate, gli occhi delle icone distrutti a colpi di mitra, tutte le croci e l’altare spezzati con metodo. Sulla porta della chiesa i soldati di Hezbollah hanno scritto: cristiani e musulmani insieme per sempre.
La «stanza»
Ora bisogna salire verso la parte alta della città. L’odore di sesamo è più forte delle immondizie. Mi orizzonto con il minareto, ecco, una casa sbrecciata dalle bombe, vuota, ma ancora intatta all’interno. Vicino alla finestra la stanza. Quel luogo mi è estraneo come un luogo in cui si è appena giunti, che ancora non ti conosce o che ti ha dimenticato. Non posso più dirgli nulla di me, non posso lasciare che una parte di me vi si appoggi. È inutile che cerchi di riallacciare il mio pensiero a quell’edificio in rovina. Spogliato e dissolto nei suoi volgari elementi materiali quel luogo mediocre mi pare lontano.
Scende il buio su Yabrud, bisogna partire perché di notte è pericolosa la strada, e le bande islamiste scendono dalle colline. Ha ragione padre George: «I ricordi non sono fatti per essere rivissuti, ma per gettarli via, nella spazzatura».
Il rientro a Damasco
Torno a Damasco. Intorno al nucleo centrale della città, i palazzi del potere e della sicurezza, i quartieri eleganti o antichi, con cerchi concentrici si allargano circonvallazioni sempre più vaste, segnano fasci di destino e di anime. Il primo cerchio inizia proprio su un lato di piazza degli Abbasidi dove le spose per tradizione vengono portate su auto scoperte a fare un passaggio di buon augurio.
Il quartiere di Jobar, un posto come tanti che ho conosciuto qui in Siria dove si ascolta il rumore che risuona quando cade una bomba ad alto potenziale, un vento pieno di morte e il rumore del dolore fisico. Prospettive immense rotte e terribili di un quartiere inghiottito dalla guerra. Le costruzioni nuove, le costruzioni vecchie e decrepite che si accavallano come scoscese montagne sulla pianura. Un groviglio geologico a seracchi, sezionato dalla battaglia, da cui sfilano in alto le torri più alte. Qui la città è davvero grandiosa e terribile, premeditata e improvvisata dalla violenza dell’uomo. Mondo grande, lunare, tutto è chiuso in se stesso. Come una maledizione: la sofferenza per aver la fortuna di avvicinarsi alle sorgenti stesse della vita, alle sue palpitazioni, ai suoi misteri. Perché la vita non si svela che ad occhi iniettati di sangue?
La guerra delle formiche
Il generale Amer, cristiano, mi racconta la sua guerra di talpe, di formiche. I combattenti islamisti hanno costruito una rete di tunnel, una città sotterranea che vive sotto l’altra. Si combatte a colpi di gallerie contrapposte, di mine che fanno crollare edifici interi dove si appostano i cecchini, con la fame.
Mi sposto in un altro quartiere: Barzi, centomila abitanti, metà ancora in mano ai salafiti. Qui è iniziata la rivoluzione, c’erano un tempo islamisti, ma anche intellettuali. Un’aria sospesa, un silenzio composto di occulti ronzii l’avvolge e sale nel cielo. Qui incontri ancora nelle via asinelli e pecore, banchetti dove spremono in succhi di miele e freschezza i melograni; e qui trovi le ragazze come Sabrine, che per disperazione si vende per dieci dollari. È bellissima, ha occhi pallidi come se portassero lo stupore di una cecità dissigillata. «Mio marito è un combattente islamista, sono fuggita con i due bambini, ma devo mangiare. Lui è rimasto dall’altra parte del quartiere, forse a un chilometro da qui... Se è ancora vivo». In Siria: la morte di ogni giorno che ci fa immortali.
Davanti all’Empresso, al Majiestic, locali alla moda, lunghe file di auto nuove, ragazzi sono seduti sui cofani, fumano, chiacchierano, ridono forte. Le ragazze sono in macchina, telefonano freneticamente. Perché non siete partiti? Rispondono con cauti discorsi da filosofi: «Quando devi morire puoi andare sulla luna e morirai lo stesso. Forse siano stati più fortunati o coraggiosi o pazzi dei nostri coetanei che sono partiti».
Il nunzio Monsignor Zenari mi mostra il biglietto che ha scelto per gli auguri di Natale: su un lato un’icona della chiesa di Yabrud, la fuga in Egitto; sull’altro una foto dei profughi siriani nel deserto. Un verso di Geremia dice: «Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata perché non sono più».
Volevo andare ad Al Qusayr dove la mia prigionia è cominciata. Rinuncio. Dello stato d’animo che in quei lontani cinque mesi furono solo una lunga tortura, non sopravvive nulla. Perché in questo mondo dove tutto si consuma, dove tutto perisce c’è una cosa che cade in rovina, che si distrugge ancor più rapidamente, lasciando ancor meno segni: ed è il Dolore.