Corriere della Sera, 1 dicembre 2015
«Caro basket, sono pronto a lasciarti. Non posso amarti più con la stessa ossessione». Il ritiro di Kobe Briant
Una poesia per un lungo addio, forse protratto troppo oltre il limite concesso dall’età e dal fisico: «Caro basket, sono pronto a lasciarti. Mi hai fatto vivere un sogno e ti amerò sempre. Ma non posso amarti più con la stessa ossessione» recita una parte del testo pubblicato da The Players Tribune. Grazie Kobe, ci mancherai. Il Bryant che per un ventennio ha speso talento sui campi di basket più importanti del mondo ha messo fine agli indugi: chiuderà al termine di questa stagione, sotto il peso di 37 anni che rischiavano di offuscare la sua gloria. Non ci sono più i Lakers dell’epopea, non c’è più lui, il fuoriclasse dei tiri impossibili e dei canestri in controtempo, il solista spesso troppo individualista che al culmine di una critica riusciva a mettere tutti d’accordo con giocate magiche.
Questo fa la differenza tra i grandi e i grandissimi giocatori: Kobe rientra nella seconda categoria, essendo, come qualcuno l’ha scherzosamente definito, la «cosa» più simile a Micheal Jordan. E dopo averlo inseguito sia per scelta – l’ha considerato suo maestro e suo mentore – sia perché è inevitabile che sorgano i paragoni (meglio l’uno o meglio l’altro? La risposta non c’è), alla fine è riuscito a sorpassare MJ: lo scorso 14 dicembre, in una stagione martoriata dagli infortuni, Bryant ha scavalcato la leggenda issandosi a quota 32.293 punti in carriera. Davanti a lui rimarranno solo Kareem Abdul Jabbar e Karl Malone. Jordan, invece, nel confronto diretto si tiene il primato di titoli Nba: sei contro cinque. E così la discussione sui due proseguirà in eterno.
Che cosa ci lascerà Kobe una volta che il 13 aprile, allo Staples Center di Los Angeles nella partita contro gli Utah Jazz, si spegneranno le luci sul suo talento? Prima di tutto il ricordo di un ragazzo cresciuto in Italia al seguito di papà Joe: fisico mingherlino, calzini arrotolati e una presenza nelle giovanili di Reggio Emilia, dove un allenatore aveva sentenziato che non sarebbe mai diventato forte. Di quell’esperienza da noi, Kobe ha conservato la conoscenza della lingua, la passione per i film di Fantozzi e il tifo per il Milan. Quando nel 1996, appena diciottenne, entrò direttamente nella Nba, scelse il numero 8: era quello che a Milano aveva Mike D’Antoni, suo idolo e poi suo allenatore a Los Angeles, anche se quelli erano Lakers in riflusso e il povero Mike, già perseguitato dalle frecciate di Magic Johnson, dovette incassare pure i mugugni di chi in precedenza l’aveva eletto a modello.
Di Kobe rimangono poi il soprannome di Black Mamba – davvero morsicava il canestro con la velocità di un serpente —, la valanga di soldi guadagnata (decimo sportivo più pagato, secondo Forbes), la fedeltà totale ai Lakers (come John Stockton con i Jazz) e ovviamente le statistiche: 5 anelli, premi di mvp, 2 titoli olimpici, 81 punti in una partita; ed è solo la punta della piramide. Rimangono anche un’accusa di stupro poi rientrata (si era nel 2003), i difficili rapporti con Shaquille O’Neal e con altri. A Ettore Messina, nel 2012 nello staff dei Lakers, confidava spesso la sua frustrazione di essere a fianco di colleghi più scarsi. Un giorno Ettore gli disse: «Ma non ti rendi conto di quanto sia difficile giocare con te?». Kobe rimase a sentire.
Non era già più il vero Bryant e tanti pensano che avrebbe dovuto smettere almeno un anno fa. Ora il conto del tempo è sul tavolo: «Il mio corpo sa che è il momento di dire addio».