la Repubblica, 1 dicembre 2015
Quelli che fanno i volontari. Inchiesta
Per molti è stato come lanciare il cuore oltre l’ostacolo, e scoprire poi che nulla sarebbe stato uguale a prima. Per Lorenzo Ciullini e Martina Fanna ad esempio, venticinque anni a testa, brillanti neo laureati in Medicina, uniti nella vita, negli studi, e nella decisione ben salda di aiutare il prossimo. Giovanissimi, appassionati, parte di quel multiforme esercito di volontari di tutte le età che attraverso centinaia di ong, di onlus, di associazioni, si mette ogni anno in viaggio verso per le periferie del mondo. C’è chi resta un mese, chi tutta la vita. A volte in modo organizzato, a volte in modo confuso, a volte rischiando la vita. Come Rita Fossaceca, medico di Novara, uccisa mentre assisteva bimbi disabili in un orfanotrofio di Watamu, in Kenya, dove tornava alternando il suo lavoro in Italia alle cure degli “ultimi”. Dietro di lei un mondo, un esercito imperfetto di persone che vogliono fare.
Racconta Lorenzo, che ha scelto di specializzarsi in malattie infettive proprio dopo aver conosciuto l’Africa, mentre Martina studia chirurgia pediatrica al “Necker” di Parigi: «La decisione di fondare “Speranza Tanzania” Martina ed io l’abbiamo presa alla fine di un’estate ad Arusha, in un piccolo ospedale nel Nord del paese dove mancava tutto, i farmaci, i letti, e le persone morivano così, perché magari saltava la corrente e si staccano i respiratori. Devo dire che la sensazione di impotenza era fortissima. Ma soprattutto ci siamo resi conto che al “Nkoaranga Hospital”, ciò che mancava più di tutto erano i medici veri, specializzati, in grado di salvare vite, le università hanno costi proibitivi, quasi nessuno può permettersele». Così tornati in Italia Lorenzo, Martina e Daria Di Filippo, giovane ostetrica, creano il blog “Speranza Tanzania” (oggi parte del progetto “Studenti senza frontiere) e iniziano a raccogliere fondi per creare delle borse di studio. «La nostra più grande soddisfazione è stato poter sostenere a Dar Es Salaam l’università di Emmanuel, un brillante studente che ad agosto del 2016 diventerà medico. E adesso sta per partire la seconda borsa di studio».
Lorenzo dice che l’Africa ti cambia, ma può essere anche la Cambogia, il Nepal o la Bolivia, lo scriveva anche Rita Fossaceca, nel suo diario raccontava «quant’è bello vederli crescere», parlando dei “suoi” bambini, per cui la vita è una scommessa. È il cosiddetto “esercito del bene”, ogni anno sono oltre seimila coloro che partono, con le più diverse motivazioni, dagli universitari come Flavia Ceccarelli, che scelgono di lavorare nelle periferie di Nairobi durante le vacanze di Natale, a Nicola Leffe, 22 anni, che la scorsa estate è andato in Palestina. Oppure Angelo Rusconi, 44 anni, si occupa di sicurezza nei cantieri italiani ma ogni anno dal prende l’aspettativa e con “Medici Senza Frontiere” va fare il “logista”, cioè ad organizzare campi dove sorgeranno ospedali per le emergenze, da Haiti al Nepal, dall’Afghanistan alla Grecia. O Alba Carpineti, 52 anni, partita da Bologna nel 2010, approdata a Mbour in Senegal, dove oggi ha fondato “La casa del sorriso”, istituto dove si accolgono i neonati orfani di madre.
Si sente l’entusiasmo, e forse anche un po’ d’emozione, nella voce di Flavia Ceccarelli, 19 anni, che tra poco volerà a Nairobi con la onlus romana “Giacomo, Giacomo”, e una valigia piena di giocattoli per far divertire i bambini degi slum. «Il viaggio ce lo paghiamo da soli, so bene che non cambieremo il mondo, ma credo che sia un’esperienza straordinaria. Alcuni di noi faranno lavori edili, altri animazione ai piccoli che vivono nelle baracche. Studio Scienze Politiche questo viaggio mi servirà per prendere coscienza, ma spero anche di poter essere utile, seppure per un segmento piccolissimo». Dispensare allegria non è mai poco, soprattutto se, come dice Angelo Rusconi, «a 15 anni ho capito che ero nato dalla parte fortunata del mondo, e dovevo restituire questo privilegio». Così Angelo fa il volontario sulle ambulanze, si occupa dei cantieri edili, dove le morti bianche sono una piaga endemica, poi si “allarga” al mondo. «A mettere in piedi i campi per “Msf” c’è gente come me, semplicemente persone che vogliono fare la differenza». Alba Carpineti dice senza remore che il Senegal le ha cambiato la vita. E non soltanto perché qui ha conosciuto Fabrice, oggi il suo compagno, e il piccolo Murtala, di cui è “mamma di fatto”, ma per la sfida di poter salvare decine di neonati destinati, invece, a morte certa. «Vivevo a Bologna, e una mia amica mi propose di andare a dare una mano in un orfanotrofio in Senegal gestito da una Ong francese. Dovevo restare un mese, invece...Ho iniziato ad occuparmi di questi piccoli, biberon, pannolini, via via ho imparato, sono figli di donne poverissime che muoiono di parto, ma nessuno può sfamarli se manca il latte materno, noi li nutriamo, li curiamo, li portiamo allo svezzamento, e poi quando è possibile li restituiamo alle famiglie d’origine.
Per quei pochi di cui si certifica l’abbandono inizia l’iter adottivo». Alba sceglie anno dopo anno di restare in Senegal. Abbandonato il lavoro nella Ong francese ha lanciato la onlus “La forza del sorriso” per aprire nel 2016 una nuova “pouponierre” per neonati. «Quando vedi che si muore perché manca un antibiotico e sai che puoi fare qualcosa non te la senti più di tornare indietro...E poi Murtala adesso ha iniziato la scuola, devo raccogliere fondi per costruire la nuova Casa del Sorriso, la mia vita ormai è qui». Nicola L. ricorda come un incubo i controlli all’aeroporto di Tel Aviv, e il terrore di essere rispedito indietro. «Studio relazioni internazionali alla “Soas” di Londra, per questo l’organizzazione pacifista con cui collaboro mi ha chiesto se volevo passare un mese in un campo a Nord di Ramallah per insegnare inglese ai ragazzi. È stata un’esperienza fortissima: vivevo in un villaggio rurale dove facevo lezione sotto gli alberi di ulivo e il pomeriggio giocavo a calcetto con i miei allievi e abitavo in una famiglia che mi offriva cibo a tutte le ore del giorno. Se non fosse stato per le ronde dell’esercito, per il filo spinato, e per la paura che leggevo negli occhi di molti, sarebbe stata quasi una vacanza. Una vacanza dentro la guerra».
Ci sono volte in cui invece è la vita a decidere per noi. Cristina Fazzi, catanese, faceva il dottorato in medicina quando una collega le chiese di sostituirla in un ospedale in Zambia. «Doveva essere per sei mesi e invece sono ancora qui. Da vent’anni. Oggi abbiamo un ambulatorio che ogni anno visita 13mila persone, grazie anche all’aiuto della onlus “Crescere insieme” di Verona. Perché non sono tornata in Italia? Perché qui, in questo dramma, il mio lavoro di medico fa la differenza».