Corriere della Sera, 1 dicembre 2015
Tanti auguri a Woody Allen, l’ottantenne – sempre giovane – di Manhattan
Se l’età si potesse misurare dall’energia (e da quello che produce) Woody Allen avrebbe diritto a una consistente riduzione anagrafica. Invece oggi festeggia il suo ottantesimo compleanno, probabilmente senza interrompere le riprese del suo nuovo film ma anche senza sforare l’orario di lavorazione perché come ha spesso ripetuto la sera vuole passarla a casa sua. Magari a guardare una partita di basket in tv.
È l’ennesima dimostrazione di un distacco e di una «leggerezza» rispetto alle cose del mondo (e della professione) che è diventata una delle sue immagini di marca, il segno di una genialità che passa attraverso l’ironia, il divertimento, la costante capacità di scherzare su sé e sugli altri. Ma che rischia anche di sminuirne il valore e il significato. Perché l’«allenismo», quella strana – e perversa – miscela di comicità e disincanto, di sarcasmo e divertimento, si è spesso rivelato una specie di luogo comune che ha finito per annullare la ricchezza e la varietà dei suoi film dietro l’etichetta di un autore condannato a una carriera tanto gratificante quanto ripetitiva, fatta di gag autobiografiche, di ironie sull’ebraismo, di sessuofobia incrostata di psicoanalisi.
E invece il suo valore e soprattutto la sua lucidità e giovinezza intellettuale, nonostante le candeline da accendere, si possono misurare proprio dalla capacità che ha saputo dimostrare nel cogliere temi profondi e necessari, nell’affrontare alcuni dei nodi più complessi e urgenti con cui la nostra cultura ha dovuto fare i conti. Anzi, proprio questa sensibilità «extracinematografica» – perché indipendente e slegata da ogni fascinazione cinefila – mi sembra la sua qualità maggiore, testimonianza indubitabile del fatto che Woody Allen, anche quando si «riposa» a casa, riflette sul mondo che lo circonda e su quello che lo agita. Con l’entusiasmo e l’intelligenza (e l’ironia) di chi non si fa per niente schiacciare dagli anni che passano.
Quando si pensa alla sua carriera, tornano subito in mente quei cinque o sei film: Io e Annie, Manhattan, Zelig, Hannah e le sue sorelle. Poi il più recente Match Point, forse Midnight in Paris. E l’ultimo, quello che deve ancora arrivare (questa volta si chiama Irrational Man e in Italia uscirà fra una decina di giorni). Si ricordano le battute, i tic, le angosce del protagonista e così si finisce per trascurare quello che invece sta diventando sempre più importante nel cinema di Woody Allen, la capacità di leggere le contraddizioni della realtà.
A cominciare dal primo film, Prendi i soldi e scappa, ritratto senza sconti di un uomo schiacciato da una società che non vuole accettarlo per quello che è (un timido) e che lo spinge ad assumere un ruolo non suo, quello di un aggressivo criminale (finendo per dover scontare otto secoli di galera). E se all’inizio la paura della propria inadeguatezza lo spinge ad anticipare le catastrofi che teme gli succedano (di solito di tipo sentimentale, abbandonando chi invece sarebbe ancora disposto a credere in lui. Fulminante la battuta finale di Manhattan : «Bisogna avere un po’ di fiducia nelle persone»), con gli anni la sua riflessione si è spostata sui condizionamenti e gli ostacoli che la società mette alla umana ricerca della felicità (o di qualcosa che le si avvicini): l’incapacità di fare i conti col passato ( Settembre, Un’altra donna ), la cecità umana di fronte ai temi della morale ( Mariti e mogli, Ombre e nebbia, Match Point ), la fragilità del successo ( Pallottole su Broadway, Hollywood Ending, Anything Else ), la presenza del dolore e del male nel mondo ( Broadway Danny Rose, ancora Ombre e nebbia, ancora Match Point, Sogni e delitti ), la sconfitta dei propri sentimenti ( Mariti e mogli, La dea dell’amore, il geniale Basta che funzioni, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni ) per arrivare con l’ultimissimo Irrational Man ad interrogarsi sui limiti delle proprie azioni e della voglia di «correggere» le storture del mondo.
Ridendo, spesso, ma anche chiedendo – a se stesso e allo spettatore – di riflettere su quello che ci circonda, che ci condiziona, che ci spinge in una direzione o in un’altra. Per ricordarci che non si può sognare sempre di fuggire e di nascondersi in un mondo o un’epoca migliore (come pensa di poter fare il protagonista di Midnight in Paris), ma che bisogna guardare negli occhi la realtà e farci i conti.
Nonostante gli anni e le paure. E la voglia di buttarla in ridere.