Corriere della Sera, 1 dicembre 2015
L’oppositore nazista nelle mani di Dio, morto strangolato per volere di Hilter. Storia di Dietrich Bonhoeffer
Dietrich Bonhoeffer venne arrestato dai nazisti il 5 aprile 1943, all’età di trentasette anni, sotto l’accusa di alto tradimento. Aveva alle spalle una breve vita di pastore luterano, molte prediche, e alcuni bellissimi saggi, tra cui Creazione e caduta, Sequela, Etica (tutti pubblicati da Queriniana). Giunto nel carcere di Berlino-Tegel, fu rinchiuso in una cella, la numero 92, dove vegliava, sperava, scriveva, attendeva che la porta venisse aperta. La cella era vuota, tranne i regali che la fidanzata, Maria von Wedemeyer, gli faceva pervenire regolarmente (Lettere alla fidanzata, Queriniana, pp. 292, e 24): eppure anche lì, solo, tagliato via dal resto del mondo, ascoltava, partecipando a quella che chiamava la «vita comune». Era vittima di un atroce crimine: vedeva, accanto a sé, persone egualmente vittime di crimini; eppure pensava che Dio potesse e volesse far nascere il bene da ogni cosa, perfino dalla malvagità più nefanda. Dovunque c’era una strada che portava a Lui.
La vita comune cominciava alla fine della notte, quando egli si svegliava nella sua cella. Nel silenzio la parola di Dio risuonava ancora più chiara. Il primo pensiero e le prime parole appartenevano a Lui. Pregava. Sapeva che, se avesse tralasciato o trascurato la preghiera del mattino, la giornata sarebbe stata piena di debolezza e di disordine. Aveva bisogno di una liturgia, come Giovanni a Patmos. Stava in basso. Dio non si vergognava della sua bassezza: vi entrava dentro; amava ciò che è perduto, ciò che non è considerato, ciò che è insignificante, ciò che è emarginato, ciò che è debole e afflitto. Lì, in carcere, Bonhoeffer viveva tra i suoi nemici: disperso e torturato dai suoi nemici, come diceva Lutero. Protestava contro chi sosteneva che egli soffriva: no, non soffriva, insisteva; contemplava soltanto la vera sofferenza, quella di Cristo, che, una volta per tutte, aveva sopportato la colpa del genere umano. Rinunciava a trasformare se stesso in qualcuno: si abbandonava; e si gettava nelle braccia di Cristo. Come era bella questa parola, abbandonarsi: lasciare se stesso per appoggiarsi completamente a Dio.
Qualche volta, Bonhoeffer aveva paura di Dio. «Oh, se non avessi avuto a che fare con Dio», scrisse. «È dura per me. Mi distrugge la pace dell’anima e la felicità». Era una vittima nelle mani di Dio. Ma, proprio in questi momenti in cui si perdeva d’animo davanti a Lui, sentiva la vicinanza, la fedeltà, la consolazione, l’aiuto di Dio. Quella di Bonhoeffer era un’attesa: il periodo di attesa era incredibilmente prezioso, anche i lunghi giorni in cui aspettava la visita della fidanzata nel carcere. «Mi rifiuto di pensare che sia stato e sia tempo perso – scriveva a Maria – quello che trascorriamo separati». Lo stesso poteva dire della sua profondissima separazione e attesa di Dio.
Gli amici, i conoscenti, perfino coloro che intravedevano Bonhoeffer per pochi minuti, erano meravigliati da quello che chiamavano il suo buonumore. Era sempre affettuoso, gentile, allegro, anche con le guardie naziste. Era pieno di speranza, sebbene sapesse che non c’era niente da sperare. Infondeva coraggio: scriveva biglietti con parole di conforto e di fiducia, quasi sempre tratte dalla Scrittura. Non era mai chiuso, ma pronto ad ascoltare e ad accogliere. Talvolta era festoso. Non disprezzava mai nessuno, perché non abbiamo il diritto di disprezzare. Viveva nella gioia: la sola, vera condizione cristiana; il sentimento supremo, perché incomprensibile, che attraversa, trasforma e supera il dolore. Non chiedeva. Sapeva che Dio ci concede ciò di cui abbiamo bisogno prima che glielo chiediamo. Mattina e sera, si sentiva circondato e protetto da invisibili potenze benigne.
Bonhoeffer era molto più anziano della fidanzata: aveva diciotto anni più di lei; sapeva che avrebbe potuto amare e sposare soltanto una ragazza più giovane di lui, perché egli era, insieme, «lo sposo e il padre». Le scrisse: «Alla tua età, a vent’anni, io scrivevo libri, mentre tu fai, sai, scopri, riempi con la vita vera ciò di cui io ho solo sognato. Conoscere, volere, fare, sentire, in te non sono divisi, ma formano un grande tutto, e una cosa viene rafforzata dall’altra. Ciò che ho trovato in te, ciò che amo – il tutto, l’indiviso, di cui ho nostalgia e desiderio... Ogni volta mi stupisco di trovare in te solo gioia, amore, pazienza e forza. Non riesco a comprendere».
I due fidanzati stavano lontani: si videro poche volte e per pochissimo tempo nel carcere; minuti strappati alla prigione sotto gli occhi di un terzo. Le lettere che si scrivevano erano controllate: non potevano abbandonarsi del tutto alla voce del cuore. «Oh, Dio, dimentichiamo gli altri quando stiamo insieme, e anche quando pensiamo l’uno all’altro», scriveva Maria. «Quando sono con te, devi esserci soltanto tu, non deve e non può esserci alcuna distanza, alcun ostacolo». Per quanto a volte fosse infelice, Bonhoeffer non protestava. Diceva che, nel loro amore, non c’era soltanto rinuncia e desiderio: un desiderio che non poteva mai venire soddisfatto. C’era anche compimento: o almeno un meraviglioso embrione del compimento.
Giunsero gli ultimi giorni di guerra: la Germania stava crollando: i carri armati sovietici si avvicinavano a Berlino; eppure i nazisti volevano eliminare, fino all’ultimo, i tedeschi che avevano osato ribellarsi contro di loro. All’inizio del febbraio 1945, Bonhoeffer venne trasferito da Berlino a Buchenwald, un campo di concentramento vicino a Weimar, che presto fu minacciato dagli Alleati.
La mattina del 6 aprile Bonhoeffer fu fatto salire su un grande autobus, diretto al campo di concentramento di Flossenbürg, nella Baviera. Contemplava dalla finestra dell’autobus la regione dolcissima, la foresta che Stifter aveva tanto amato e che egli aveva amato leggendo Stifter. Come racconta un libro appena pubblicato (Christoph U. Schminck-Gustavus, Il processo a Dietrich Bonhoeffer, Castelvecchi, pp. 144, e 17,50), nel primo pomeriggio del 6 aprile l’autobus giunse a Schönberg, un paese a quaranta chilometri a nord di Passau. I prigionieri furono portati in una scuola: al primo piano di un’aula luminosa, c’erano letti con coperte colorate. Bonhoeffer rimase a lungo alla finestra a prendere il sole: poi cominciò a discorrere in russo con un giovane prigioniero, Kokorin, cugino di Molotov. Tutti erano eccitati e ridevano, specialmente Bonhoeffer; e scrivevano il loro nome sui letti. Non c’era cibo. Alla fine, alcune compassionevoli famiglie del villaggio portarono loro una grande terrina di patate fumanti, e il giorno dopo patate in insalata. Tutti credevano che, nella generale confusione, non ci sarebbe stato posto per un processo: ma la macchina nazista continuava procedere con la sua paurosa efficacia.
Il giorno dopo, la domenica, i prigionieri chiesero a Bonhoeffer di tenere un breve culto mattutino. Bonhoeffer rifiutò, perché la maggior parte di loro era cattolica, e Kokorin comunista. Ma tutti furono d’accordo. Allora Bonhoeffer tenne una meditazione. Lesse i testi della domenica, recitò orazioni, e spiegò le letture del giorno: «Per le sue lividure noi abbiamo avuto la guarigione» e «Benedetto sia Dio, il quale nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere». Parlò dei pensieri che la prigionia aveva generato in tutti. All’improvviso, la porta si spalancò. Due civili gridarono: «Prigioniero Bonhoeffer, prepararsi a venire via!».
Bonhoeffer riuscì a raccogliere le sue ultime cose. Con una matita spuntata scrisse a grandi lettere il proprio nome e indirizzo sul frontespizio di un libro di Plutarco, che la famiglia gli aveva inviato nel carcere di Berlino. Lasciò un biglietto per il vescovo di Chichester, suo amico: «È la fine – per me l’inizio della vita». Discese in fretta le scale, e fu portato nel campo di concentramento di Flossen-bürg. Lì, forse, avvenne un processo, con un farsesco pubblico accusatore: Bonhoeffer era stato condannato a morte da Hitler. Era nudo e indifeso. Venne strangolato da una corda che saliva e scendeva, appesa a un gancio di ferro conficcato in una parete.