Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 30 Lunedì calendario

«Creo opportunità di lavoro a professionisti del pallone. Possono essere giovani calciatori in cerca del primo contratto, campioni affermati, allenatori più o meno bravi». Parla Andrea D’Amico, il procuratore che esporta i talenti italiani negli Usa

D’Amico, non potevamo che incontrarci nella hall di un hotel.
«Per me sono luoghi strategici, sono sempre in giro. Settimana scorsa ero a Toronto, oggi a Milano, domani parto per la Russia...».
 Il lavoro più bello del mondo...
«Sembra facile ma non lo è. Ogni tanto qualche amico prova a starmi dietro. A fine giornata crolla...».
 Andrea D’Amico per campare fa il procuratore, l’agente di calciatori, quello che ti porta il contratto, le palanche, è il tizio che nelle interviste non lo vedi mai perché sta sempre un passo più in là dell’inquadratura, nell’ombra. Per molti è «il più bravo».
 D’Amico, non faccia il modesto, lei è il migliore?
«Io? Questo lo devono dire gli altri, diciamo che posso definirmi il più completo per età, contatti, competenze, capacità di “trovare incastri”».
 Alla faccia. Ho sentito calciatori decantare le sue lodi sulle note di una celebre canzone di Venditti:
«Ci vorrebbe un D’Amico...».
 È lei che cerca i «clienti» o sono loro che la contattano?
«Una volta li cercavo io, ora sono più loro a venire da me».
 Spieghi in parole povere in cosa consiste il suo lavoro.
«Creo opportunità di lavoro a professionisti del pallone. Possono essere giovani calciatori in cerca del primo contratto, campioni affermati, allenatori più o meno bravi».
«Creo»? Cos’è, un artista?
«Beh, sì, io mi sento un artista. Il mio lavoro consiste nel percepire sul mercato una necessità “latente” e coglierla prima che diventi “manifesta”. Se si “manifesta” entri in concorrenza con i colleghi e hai perso il treno».
 Faccia degli esempi, prego.
«Il primo che mi viene in mente è Bocchetti, oggi difensore titolare allo Spartak Mosca. Un anno fa mi chiede di trovargli un club perché non trova spazio in campo, il 24 gennaio Mexes si fa cacciare durante Lazio-Milan, prende 4 giornate, chiamo Galliani da Toronto e concordiamo il prestito per 6 mesi. Telefono a Salvatore che era in ritiro in Spagna: “Si va a Milano”. Bisogna saper cogliere le opportunità...».
 Altro esempio?
«Questo è meno recente. Nel 1996 Pietro Vierchowod inizia la preparazione nel Perugia ma non si trova bene, vuole cambiare. Mentre penso a come accontentarlo, Franco Baresi si fa male. Chiamo Galliani: “Adriano, ho il giocatore che fa per te”. E in un sol colpo risolvo due problemi».
 Non vorrà dirmi che campa sulle “sfighe” altrui...
«A volte devi essere più veloce degli altri, altre volte devi avere semplicemente fortuna, altre ancora devi stare attento a quello che ti succede attorno, per questo contatti e viaggi sono fondamentali. Prenda Cannavaro...».
 Ma non è un suo assistito...
«Che c’entra? Nel 2010 prima dei Mondiali sono a Dubai dal presidente dell’Al-Ahli. Mi parla dei testimonial dello sport degli Emirati Arabi: i due più celebri sono Federer e Woods, ma il golfista – mi dice – non ha più una bella immagine per le note vicende personali. Torno a casa, sono in cucina, accendo la tv e Cannavaro parla dell’imminente Mondiale. Dice che partirà per il Sudafrica senza contratto “e poi si vedrà...”. Si accende una lampadina, faccio 1+1, chiamo il ragazzo, lui si mette d’accordo con i suoi agenti e diventa uomo immagine degli emiri per 3 anni...».
 E Lentini?
«È il 1992, il Toro lo vuole dare in prestito, lui chiede di essere ceduto. Lo piazziamo al Milan. Era il “Cristiano Ronaldo” dell’epoca. Quando un certo Van Basten viene a sapere del trasferimento non sta nella pelle: “Davvero giocherò con Gigi?”».
 Può esistere un calciatore professionista “autodidatta”, che fa a meno del procuratore?
«No, per due motivi. Il primo riguarda l’immagine. Io, calciatore, non posso bussare alla porta di un club e dire “prendetemi, sono bravo”. Che figura ci faccio? La seconda è che i giocatori non riescono a cogliere le opportunità che offre il mercato».
 Giovinco, per dire. Lo sa che l’ex attaccante della Juve con 8 milioni di euro all’anno tra ingaggio e diritti d’immagine è il giocatore italiano più pagato al mondo?
«Questo lo dice lei (ride ndr)».
 Ci spiega com’è andato il trasferimento della
«Formica Atomica»?
«Il ragazzo è in scadenza con la Juve, parliamo con il club ma non ci sono i presupposti per il rinnovo. Allora mi guardo in giro ma tutte le soluzioni non soddisfano Sebastian. Il Bologna, per dire, in quel momento farebbe carte false per averlo ma è in serie B. Allora mi viene in mente una recente chiacchierata che ho fatto con i vertici dell’Mls, in America, e mi illumino: stanno vivendo la “terza fase” di sviluppo del prodotto calcio, per loro Giovinco è perfetto».
 Specifichi
«terza fase».
 
«Prima hanno puntato sui miti a fine carriera, poi hanno richiamato in patria i giocatori americani, ora hanno bisogno di
«uomini immagine», grandi calciatori europei. Mi viene in mente Toronto, una città con un milione di “italiani”, chiamo i miei contatti, parliamo, non c’è bisogno di trattare: sono entusiasti da subito».
 E Giovinco sbarca nell’Mls.
«...e diventa una star. L’Mls è un torneo straordinario, il futuro è lì: hanno strutture all’avanguardia, stadi pieni, entusiasmo, capacità di esportare il prodotto. Ho detto loro: “Se Hollywood decide di fare un film sul soccer è fatta”. Lo faranno. Sa qual è il guaio?».
 Dica.
«In Italia siamo troppo autoreferenziali, pensiamo che il calcio sia tutto lì e invece non è più così. Io e il mio maestro, Claudio Pasqualin, l’abbiamo capito tanti anni fa. Abbiamo portato Porrini e Amoruso in Scozia, Vialli al Chelsea nel 1996».
 Altri calciatori italiani sono pronti a partire per gli States?
«Certo. Prima di Sebastian ho sistemato Donadel al Montreal, altri arriveranno già a gennaio».
 Prima parlava di
«fortuna».
 La Dea Bendata l’ha aiutata nella vita?
«Non so se possiamo definirla “fortuna”, ma “qualcuno” mi guida da quando ho 14 anni».
 Racconti.
«Sono nel mio paese, Villafranca in provincia di Verona, giro in motorino sulla pista d’atletica, cado, sbatto la testa e entro in coma. All’epoca c’era Papa Luciani, mi risveglio dopo un mese, la radio è accesa e parla del nuovo Pontefice, un certo Karol Wojtyla. Chiedo “chi è questo...?”».
 Come si diventa procuratori?
«Ci vuole cultura, predisposizione ai rapporti interpersonali, bisogna conoscere la materia, i contratti...».
 Anche con la laurea in mano non deve essere così semplice...
«Serve coraggio. Nel 1990 sono a Milano per il master. Intuisco che la vita da giurista non fa per me. In quei giorni c’è il mercato, entro in sede, fermo un tizio e gli rompo le palle: “Voglio fare questo mestiere”. Per disperazione mi indica un signore: “Parla con lui, viene dalle tue parti”. È Pasqualin, mi dà un appuntamento e inizio il mestiere. Ora con suo figlio Luca e mio fratello Alessandro – due fenomeni – portiamo avanti la società, la Pasqualin D’Amico Partners».
 Pensate anche al post-carriera dei giocatori?
«Con un’altra società acquistiamo e rivendiamo palazzi. Per un calciatore è importante sapere come investire i guadagni, altrimenti i soldi prima o poi finiscono anche se sono tanti».
 A proposito, lei quanto guadagna su ogni contratto?
«Fino al 5% sul lordo, però...».
 Non mi dica
«i soldi non sono tutto», la prego...
«Ma è così! Potrei vivere a Milano e semplificare il mio lavoro, invece resto a Custoza, lì c’è la mia famiglia d’origine, mio figlio, ci sono i miei amici, persone semplici come me. Il benessere interiore conta più del denaro».
 Ha mai litigato con qualche dirigente o con qualche suo assistito?
«Non è mio costume arrabbiarmi. Se ci sono problemi si risolvono, se non si possono risolvere ci si saluta».
 Con Gattuso com’è andata?
«Questo purtroppo non lo so. L’ho conosciuto quando aveva 20 anni, l’ho riportato in Italia dalla Scozia, prima alla Salernitana e poi al Milan. Dopo 17 anni insieme mi ha fatto sapere tramite un comunicato che non ero più il suo agente. Non ci siamo sentiti, non abbiamo litigato, prima o poi magari mi farà sapere».
 Ora Ringhio allena a Pisa. Un altro allenatore che ha pensato
«Ci vorrebbe D’Amico» è Mazzarri.
«Mi creda, stiamo parlando di un grandissimo allenatore, uno che cura i particolari, che sa far rendere la sua squadra al meglio. Presto una “big” lo prenderà e farà un affare. La cosa più complicata è... avere pazienza».
 Mazzarri non ne ha?
«Mazzarri non ha questi problemi, è il tecnico più “mentale”, preparato e determinato che io abbia conosciuto, sta solo aspettando il progetto giusto. Prenda Montella, ha lasciato la Fiorentina e dopo pochi mesi si è piazzato alla Samp. Ormai il mercato dei tecnici è molto veloce, ma se un mister ha raggiunto un determinato livello deve ambire a quello superiore; se sposti una borsa da Via Montenapoleone al negozio multi-marca di Corso Buenos Aires, la percezione del pubblico cambia anche se è la stessa borsa».
 Il suo collega più
«chiacchierato» è Raiola. Cosa pensa di lui?
«Non giudico mai i colleghi».
 La vita privata risente del suo lavoro?
«Sì, ma se lo vuoi fare bene non puoi rallentare».
 Due dei suoi assistiti che hanno guadagnato parecchio?
«Nel 2000 tratto il rinnovo di Del Piero – mio testimone di nozze – con il dottor Umberto Agnelli: 10 miliardi di lire per 5 anni. E Toldo all’Inter? Alla Fiorentina vanno 50 miliardi, al giocatore 8 per 5 anni, tutti meritati».
 Quanti giocatori gestisce?
«Non saprei, un centinaio».
 Uno che vorrebbe avere?
«Uno a caso? Messi».
 E Ronaldo no?
«Ha detto uno!»