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 2015  novembre 29 Domenica calendario

«Io come Luke Skywalker». Parla Umberto Guidoni, astronauta

Come moltissimi altri adolescenti, cresciuti nel mito dello spazio della fine degli anni Sessanta, anch’io sognavo i mondi vagheggiati nei fumetti di Flash Gordon e nella Trilogia di Isaac Asimov. Poi è arrivato lo sbarco sulla Luna e, mentre vedevo le sagome sfocate di Armstrong e Aldrin che passeggiavano sul suolo lunare, mi convincevo che i viaggi nello spazio non erano solo il soggetto delle storie di fantascienza ma potevano diventare imprese alla portata di uomini in carne e ossa. È così che ho cominciato ad accarezzare l’idea che un giorno sarei diventato un esploratore dello spazio, un astronauta.
Crescendo mi sono reso conto che il mestiere di astronauta era forse possibile per americani e russi, ma restava solo un sogno per un italiano. Sono diventato un astrofisico e ho esplorato lo spazio con i telescopi ma, mentre approfondivo le leggi della gravità e l’evoluzione delle stelle e delle galassie, continuavo a sognare i viaggi spaziali leggendo i romanzi di Arthur C. Clarke e seguendo le avventure dei personaggi di Star Trek e Star Wars.
Alla fine degli anni Ottanta, dopo quasi un decennio trascorso come ricercatore del Cnr, l’opportunità di andare in orbita si è materializzata, quasi all’improvviso. Due candidati, tra centinaia di partecipanti, sarebbero stati scelti per essere addestrati a volare a bordo dello Space Shuttle della Nasa. Era una sfida quasi impossibile ma non potevo ignorarla: è cominciata così la mia avventura di astronauta.
Dopo anni di prove e di simulazioni, è arrivato finalmente il giorno della partenza. La prima missione è stata nel 1996 sullo Space Shuttle Columbia. La seconda, di cui qui racconto, nel 2001 con lo Space Shuttle Endeavour e la meta era la Stazione spaziale internazionale. Chi ha visto il film Armageddon ricorda le immagini di Bruce Willis e del suo equipaggio che passano la visita medica finale, la vestizione con la tuta arancione, il tragitto verso la rampa di lancio scortati dalle auto della polizia e dagli elicotteri in volo. La realtà non è molto diversa anche se, nel mio caso, c’era. L’ingresso dell’equipaggio nella cabina avviene con largo anticipo. Con la navetta in posizione verticale, si sta seduti sulla schiena per almeno un paio d’ore. La tuta impedisce i movimenti e i muscoli si intorpidiscono ma il lancio è ormai imminente. Quando il conto alla rovescia arriva a «6», si avverte il sordo boato dei motori principali e, allo scandire dello «0», si accendono i due razzi a combustibile solido ( booster ) e l’ Endeavour comincia a muoversi verso l’alto, prima lentamente, poi sempre più velocemente. Si avvertono forti vibrazioni e si sente una spinta sempre più possente. Le vibrazioni durano fino al distacco dei due booster; quando il volo si fa più regolare e si raggiunge la massima accelerazione di «3g», tre volte il peso sulla terra, che si mantiene costante per alcuni minuti. La pressione sul torace si fa sentire, soprattutto per colpa della pesante tuta arancione.
Otto minuti dopo l’accensione, i computer di bordo cominciano il conto alla rovescia per lo spegnimento. All’improvviso i tre motori tacciono, sparisce la pressione sul petto e si avverte un’inaspettata sensazione di leggerezza. Sono ancora seduto solo perché le cinture del seggiolino mi trattengono, altrimenti starei galleggiando nella cabina. Appena sono libero di muovermi, il primo impulso è di andare verso un oblò per guardare fuori. È un’immagine fantastica! Si vedono la costa dell’Africa, il color ocra del deserto del Sahara, il maestoso Nilo che traccia una gigantesca cicatrice tra le sabbie che si estendono a perdita d’occhio. Il pianeta sembra muoversi in gran fretta, ma è la navetta che sta viaggiando all’incredibile velocità di 28 mila chilometri all’ora.
Ci vuole un po’ per adattarsi alla nuova sensazione di essersi liberati del proprio peso. In orbita non esiste «alto» o «basso» e il cervello sembra confondersi: dove sono i piedi diventa il pavimento e dove si trova la testa c’è il soffitto. Se ci si mette con i piedi in aria, la mente rielabora l’informazione e l’intera cabina ruota sottosopra: così, in una frazione di secondo, il pavimento si trasforma nel soffitto. A questo punto, sono gli altri membri dell’equipaggio a essere fuori posto, visto che continuano a lavorare con i piedi sul soffitto. Lo stesso vale per i cambiamenti che avvengono nel proprio corpo. Senza il peso, il sangue e gli altri fluidi non sono trattenuti nelle estremità inferiori ma si distribuiscono in modo uniforme. L’effetto è simile a quello che si prova quando si è raffreddati: naso chiuso, una fastidiosa pressione alla testa e poca voglia di mangiare. Questa condizione permane finché l’organismo non ha eliminato i liquidi in eccesso e ha trovato un nuovo equilibrio. In altre parole, essere disidratati è la condizione ideale nello spazio.
Comincia l’inseguimento della Stazione che è diventata più brillante di tutte le altre stelle del firmamento. Non posso fare a meno di ripensare alle sequenze del film 2001: Odissea nello spazio. L’anno è lo stesso ma la stazione dove stiamo attraccando è molto diversa dalla futuribile ruota immaginata da Kubrick e neanche si sentono le note del valzer di Strauss. Davanti a me c’è una struttura complessa, fatta di moduli cilindrici, pannelli solari, antenne e radiatori; un cantiere ancora in fase di completamento. Qualche ora dopo siamo attraccati, pronti a fare il nostro ingresso nella base orbitante. Per me è una grande emozione e sento tutta la responsabilità di essere il primo europeo a mettere piede a bordo.
Quando si fa un giro intorno alla Terra in un’ora e mezza, con il giorno e la notte che si rincorrono ogni 45 minuti, il tempo sembra passare molto più velocemente. Per questo, ma anche per le numerose attività che vengono condotte in orbita, i dieci giorni a bordo della Stazione spaziale internazionale sono letteralmente «volati via». È arrivato il momento di salutare, non senza commozione, i nostri colleghi che restano nello spazio per altri mesi, isolati dal resto dell’umanità. Ho provato un certo orgoglio all’idea che abbiamo consegnato loro un carico prezioso, indispensabile per portare a compimento il primo avamposto umano nello spazio. Con la nuova «gru spaziale», la stazione può continuare a crescere e sarà meglio attrezzata per affrontare le sfide.
Lasciata la base orbitante, il nostro ultimo giorno nello spazio è trascorso in preparazione della fase finale: il rientro nell’atmosfera terrestre. La manovra richiede l’accensione dei motori orbitali che rallentano il veicolo quanto basta per cominciare la caduta verso la Terra. È tempo di sedersi e di allacciare le cinture. Si torna a casa!
Tutto avviene molto rapidamente, si avverte l’attrito dell’atmosfera, si vedono globi fiammeggianti e i bagliori rosso fuoco prodotti dall’enorme calore. L’ Endeavour comincia a rallentare, ma la velocità è sempre elevatissima. Sbuchiamo dalle nuvole sulle acque del Pacifico e, dopo pochi minuti, siamo in vista della California e della pista della base Edwards, dove la navetta tocca terra con uno splendido atterraggio. Si è conclusa una meravigliosa avventura ma riabituarsi a vivere su questo pianeta non sembra facile. Si cammina con passo malfermo e tutto sembra troppo pesante; pare impossibile che, solo qualche ora prima, si potesse volteggiare liberamente nella cabina dell’ Endeavour.
Anche se non ho esplorato nuovi mondi, come gli eroi dei romanzi della mia adolescenza o i protagonisti di Guerre stellari, ho provato emozioni oltre ogni immaginazione. Ho viaggiato in orbita per milioni di chilometri (quasi come Luke Skywalker e Han Solo...), ho sorvolato ogni angolo del globo, ho visto il sole sorgere e tramontare più di duecento volte ma, soprattutto, ho imparato a guardare il nostro pianeta con occhi diversi. Dallo spazio, la Terra appare come una magnifica sfera azzurra, trapuntata di nuvole bianche, un’oasi calda e accogliente, circondata dal buio cosmico freddo e inospitale. Un’oasi, tanto fragile quanto unica, di cui dovremmo avere maggiore cura.