La Lettura, 29 novembre 2015
Gig economy, cioè quella dei lavori a gettone, flessibili e senza tutele. Alcune aziende, consapevoli dei problemi sociali che possono creare, si sono date una carta con i diritti dai lavoratori
Che cos’hanno in comune Care.com, principale sito americano per i servizi di assistenza alla famiglia; VetPronto, una società che procura veterinari on demand; DoorDash, un servizio di consegne a domicilio per conto di ristoranti e negozi; Managed by Q, una start up che offre servizi per gli uffici sempre on demand ? Sono tutte imprese della nuova economia collaborativa: lavoro flessibile ma anche senza tutele. È la gig economy dei lavori «a gettone» ribattezzata Uber economy da chi vuole sottolineare la vulnerabilità della posizione del lavoratore trattato come un finto imprenditore di se stesso e con altre definizioni più o meno suggestive ( platform economy, networked economy, sharing economy, peer economy ) da chi preferisce mettere in luce la duttilità e l’aspetto collaborativo delle nuove forme di lavoro.
Ma quelle citate sono anche quattro delle dodici start up che, consapevoli dei problemi sociali che si stanno creando all’ombra di imprese comunque dinamiche e promettenti, qualche giorno fa a San Francisco hanno sottoscritto il Good Work Code. Un nome impegnativo per qualcosa che deve ancora maturare: proposto dalla National Domestic Work Alliance, un’alleanza che riunisce 53 organizzazioni che tutelano i diritti dei lavoratori domestici (babysitter, infermieri e fisioterapisti a domicilio, badanti, personale delle pulizie) senza sindacato e non tutelati dalle leggi sul lavoro, questo codice del «buon lavoro» non contiene, per ora, norme vincolanti. I firmatari si impegnano a coltivare otto valori – un salario sufficiente per una vita dignitosa, trasparenza, sicurezza, stabilità e flessibilità del lavoro, una prosperità condivisa, politiche di inclusione in azienda, possibilità di crescita professionale e altro ancora – fin qui poco considerati dalle società tecnologiche, con conseguenze negative per il mondo dei freelance.
Può sembrare (e forse lo è) solo un gesto di buona volontà, ma nella Silicon Valley abituata a sviluppare sistemi efficienti e meritocratici governati da rigide logiche algoritmiche, è la prima volta che questi imprenditori si pongono problemi di tenuta della società davanti alla disruption delle start up tecnologiche. Argomenti di cui si è discusso a Next: Economy, un forum sull’impatto delle nuove tecnologie sul lavoro e sulle nostre vite organizzato nella città californiana dal gruppo O’Reilly Media. I sindacati tradizionali fin qui hanno cercato soprattutto di ostacolare lo sviluppo di queste nuove forme di lavoro difficili da proteggere. Ma, di fronte al dilagare del fenomeno, arroccarsi non serve: «Sono quasi 54 milioni gli americani che oggi fanno qualche lavoro da freelance», sostiene Sara Horowitz, direttore esecutivo della Freelancers Union, e «non c’è tempo da perdere, bisogna creare un nuovo sistema di tutele per un fenomeno che ormai tocca il 34% della forza lavoro americana».
Davvero un terzo dei 157 milioni di lavoratori Usa è attivo in questa sorta di economia informale? Le cose non stanno proprio così. E il «Wall Street Journal» nega addirittura l’esistenza del fenomeno sulla base delle statistiche del ministero del Lavoro che indicano una diminuzione della quota di lavoratori indipendenti. Altre fonti autorevoli, però, sostengono che il quotidiano si sia basato su classificazioni arcaiche. Il punto vero è che i dipendenti (o contractor ) reclutati attraverso i canali digitali che lavorano prevalentemente per le start up sono già più di tre milioni. Gli altri sono persone che hanno un lavoro fisso e arrotondano i guadagni in vari campi.
Il numero dei lavoratori della gig economy tuttavia è destinato a crescere ancora rapidamente: secondo un’analisi di Buzzfeed nel 2020 saremo già a 7,6 milioni di professionisti di questo tipo. Un toro da afferrare ormai per le corna. Per le dimensioni imponenti del fenomeno ma anche perché, con tutte le sue incognite e i suoi limiti, il lavoro on demand potrebbe anche diventare uno dei pochi volani di crescita economica (forse l’unico, almeno in Occidente): un’ipotesi che emerge, ad esempio, dalle analisi del McKinsey Global Institute, come spieghiamo qui a fianco.
È un mondo senza certezze, in continuo movimento, quello messo in moto dalle tecnologie digitali: secondo l’ormai celebre analisi dell’Università di Oxford, i robot, entro pochi decenni, potrebbero sottrarre quasi la metà dei posti di lavoro a noi esseri umani. Ma proprio a Next: Economy il capo di Microsoft, Satya Nadella, ha sostenuto che tecnologie come quella dell’assistente vocale Cortana (o Siri nella versione Apple) sono destinate a trasformare gli utenti in «lavoratori aumentati» che cederanno ai robot non interi impieghi ma solo alcune mansioni, sviluppandone al contempo altre più sofisticate che dovrebbero far crescere la produttività del sistema.
Non ci sono più certezze nemmeno sui canali da percorrere per cercare di andare a lavorare per le società migliori. Fin qui si riteneva che una buona laurea in una delle università d’eccellenza americane fosse l’assicurazione più affidabile per iniziare una carriera nelle aziende importanti. Ma, a San Francisco, Laszlo Bock – vicepresidente di Google per le People Operations, una specie di supervisore delle risorse umane – ha spiegato che da loro negli ultimi anni la politica delle assunzioni è cambiata radicalmente dopo che ci si è accorti che, a distanza di un decennio dall’ingresso in azienda, «non c’è più alcuna relazione tra il rendimento professionale di un dipendente e la sua origine accademica: davamo per scontato che chi veniva da Harvard, Stanford o dal Mit fosse più brillante», ma la realtà si è rivelata diversa.
Certo, la rivoluzione delle app attraverso le quali attivare i nuovi servizi on demand riguarda solo una parte dell’economia: quella dei servizi alle famiglie. Ma la platform economy sta rapidamente arrivando anche al mondo dell’industria come spiega il capo della General Electric, Jeff Immelt, pronto con il suo gruppo ad assorbire l’onda dell’«internet delle cose» che promette di aprire la strada a nuovi modi di produrre. Alcuni vedono in tutto questo solo l’incubo di una nuova era di disruption : la demolizione della grande impresa nata nell’Ottocento dalla necessità di concentrare in un luogo solo tutti i fattori necessari per un processo produttivo molto complesso, mentre oggi il web e le tecnologie digitali come quella delle stampanti 3D consentono di decentrare le produzioni.
Che questa sia o meno la chiave per rimettere in moto la crescita puntando più sui servizi che sulla manifattura, è evidente che non è possibile opporsi alla diffusione della sharing economy.
Meglio muoversi per tempo per cercare di introdurre correttivi a un’economia basata sugli algoritmi della pura efficienza aziendale, che privilegia il consumatore rispetto al prestatore d’opera e favorisce ulteriori polarizzazioni dei redditi. Per mantenere lo sviluppo dell’economia entro binari socialmente sostenibili, è necessario che la politica intervenga non con interventi statalisti ma con alcuni correttivi. Del resto già oggi la politica americana è molto attenta a questi problemi, come ha raccontato il 19 novembre al «Corriere della Sera» Marco Zappacosta, fondatore di Thumbtack, una delle start up californiane di maggior successo (vale già 1,3 miliardi di dollari), che ha già ricevuto la visita in azienda di candidati presidenziali come Jeb Bush, di senatori che vogliono cambiare le leggi in materia di lavoro come Mark Warner ed è stato chiamato alla Casa Bianca a illustrare il suo modello di business. Il senatore democratico vorrebbe addirittura rivedere la classificazione del lavoro e dei relativi sistemi di tassazione aggiungendo alle due categorie tradizionali – lavoratori autonomi e dipendenti – una terza categoria intermedia con una forma ibrida anche dal punto di vista delle protezioni sociali. Difficile che la spunti in un Congresso a maggioranza repubblicana, ma l’attenzione su questi temi non potrà che crescere.
Negli stessi giorni in cui dodici imprese aderivano al manifesto del «buon lavoro», altre grandi aziende come Lyft, il principale concorrente di Uber, ma anche finanzieri come i partner di Union Square Ventures e alcuni sindacati come l’unione dei servizi Seiu, hanno firmato un appello ai politici per la creazione di una rete di protezione sociale per i lavoratori dell’economia on demand, basata sulla «portabilità» da un impiego all’altro dei benefici maturati. Certo, il rischio di queste intese tra imprese e union è sempre quello di accordi sottobanco a spese dei contribuenti, ma il problema è reale e non può più essere ignorato.