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 2015  novembre 29 Domenica calendario

Starbucks viene a venderci il caffé, Domino la pizza, Unilever il gelato. Perché gli americani riescono a propinarci ciò che sapremmo benissimo fare da soli?

Nei grandi bar se ne parla da qualche settimana. Che cosa accadrà all’espresso made in Italy con lo sbarco in Italia, previsto nel 2016, del gigante Starbucks? Difficile calcolare l’impatto sulla tradizionale tazzina di caffè di prodotti come il frappuccino o il caramel mocha, declinazioni americane di un’eccellenza tutta italiana: ma la cosa certa è che stiamo parlando di un colosso globale, abituato a muoversi nel mondo con il passo del conquistatore. I coffe house con il marchio Starbucks sono già 22.519 in 68 paesi e il gruppo di Seattle vanta un fatturato di 16,4 miliardi di dollari. Numeri da capogiro che fotografano la potenza di un brand che ha messo gli occhi su quel 69% della popolazione italiana che, ogni giorno, inizia la giornata al bar con un caffè o un cappuccino.
Dalla tazzina alla pizza. Anche in questo settore stiamo assistendo all’arrivo del gigante americano: il colosso Domino’s Pizza qualche giorno fa ha aperto la sua prima pizzeria a Milano (presto diventeranno tre) con l’obiettivo di mettere le sue bandiere su un mercato molto ricco, da Bolzano a Palermo. L’avventura di Domino’s Pizza ha lo stesso timbro di Starbucks, ovvero una versione stelle e strisce di un tipico prodotto tricolore, con la stessa capacità di utilizzare un’eccellenza di nicchia per trasformarla nel presidio di un mass market. Attualmente Domino’s Pizza, sede nel Michigan e data di nascita che risale al 1960, quotata a Wall Street, fattura 8,9 miliardi di dollari, con 12.100 punti vendita in 80 mercati. E il gruppo è leader mondiale nel settore della pizza a domicilio.
LE ACQUISIZIONICon il gelato, invece, l’attacco al mercato italiano è avvenuto in maniera diretta. La multinazionale Unilever, 48,4 miliardi di euro di fatturato, ha ingoiato con un solo boccone il marchio Grom, creato appena 12 anni fa dai torinesi Federico Grom e Guido Martinetti, specializzato nella vendita di prodotti di fascia alta che adesso si andranno ad abbinare con i più popolari cornetti Algida. I conti di Grom non erano brillantissimi e Unilever ha avuto gioco facile nel chiudere l’acquisizione. E anche in questo caso l’eccellenza alimentare italiana, per pensare in grande, ha avuto bisogno di un cappello straniero. Di solito americano.
Caffè, pizza, gelati: la musica è sempre la stessa. Noi abbiamo la qualità, il marchio, perfino i codici genetici, di prodotti alimentari di larghissimo consumo, ma non riusciamo mai a presidiare i grandi network, ovvero gli imperi industriali e finanziari che nascono sotto il segno di un brand. Il caffè italiano è patrimonio dell’Unesco, la pizza napoletana ha il marchio di Bruxelles di Specialità tradizionale garantita (Sgt), ma i veri affari da economia globale, con questi articoli, li fanno gli altri, mai noi.
Perché? Una prima risposta arriva dalla debolezza finanziaria delle nostre imprese che sono, generalmente, sottocapitalizzate e “bancodipendenti”, ovvero prigioniere del sistema bancario che monopolizza il credito industriale. La Borsa è solo un catino e l’enorme risparmio liquido degli italiani (circa 3.500 miliardi di euro) finisce ovunque, anche sotto i materassi, tranne che a mettere carburante per alimentare la crescita del sistema produttivo e distributivo.
LE GRANDI CATENEPer fare una grande catena, con respiro internazionale, non basta il brand e la qualità di un prodotto, servono anche soldi, e tanti: quelli che le imprese italiane non sono in grado di mettere sul tavolo. Più di un terzo degli acquisti di pizze, per fare un esempio, nel mondo passa attraverso i cellulari, le app e Internet. Il gruppo Starbucks per rendere più competitivi i propri locali, si è allargato, con forti investimenti perfino nel settore dell’intrattenimento, creando la Starbucks digital network, che produce film, serie tv e news.
Il secondo punto di debolezza riguarda le dimensioni delle imprese. In Italia soltanto lo 0,8% delle aziende ha un fatturato superiore ai 50 milioni di euro, mentre il 94% non supera i 2 milioni di euro. Il nanismo delle imprese è diventato un male cronico del sistema industriale made in Italy, e ne soffrono proprio le migliori eccellenze, dove la frammentazione è più forte. Nel settore del caffè il gruppo numero uno, Lavazza, non supera i 400 milioni di euro (il suo obiettivo è raddoppiare questa cifra entro il 2025), mentre il mercato nell’espresso in Italia è conteso da 250 società. Troppe per consentire la nascita di un colosso globale. Sufficienti, invece, ad attirare i capitali stranieri. Quelli che allungando le mani su prodotti tipici e consolidati, che si sommano ai presidi nella pasta (per esempio Buitoni) o nel cioccolato (Baci Perugina) ci dimostrano in modo chiaro un possibile futuro del Paese, da un punto di vista industriale: conteremo sempre più prede che predatori. E questo non ci aiuterà a crescere.