Il Messaggero, 30 novembre 2015
Enrico Montesano scrive un libro in cui parla di sé: «Ma non mi metto completamente a nudo. È una confessione in mutande»
Il sottotitolo del suo libro, appena uscito per Piemme, è Vita semiseria di un comico malinconico. L’autore risponde al nome di Enrico Montesano. «L’editore ha voluto questo sottotitolo. Io non mi sento malinconico. Non sono un allegrone, un estroverso, e sicuramente c’è una certa melanconia romanesca. Mia nonna mi chiamava “l’inglese stanco di vivere” già a otto anni... Ora che ci penso, forse dovrò ammettere di essere un comico malinconico».
Il titolo è Confesso. Dopo il primo romanzo, Un alibi di scorta, uscito nel 2011, cambia completamente genere e passa a un’autobiografia, come dice la copertina, “liberamente tratta” dalla sua vita.
«Volevo che contenesse anche ragionamenti inconsueti e che rispecchiasse un po’ dell’insana curiositas che mi spinge. Mi basta una parola per saltare di palo in frasca… Tra ricordi e curiosità, spero di stimolare nel lettore una voglia di approfondimento».
C’è dentro tutta la sua vita da attore, tra teatro, cinema e tv, ma si parte da tutt’altra ipotesi: un concorso per 38 posti di lavoro al catasto. Come sarebbe stata la sua vita se…?
«Lo avrei fatto per un po’ e poi sarei andato via. Non ce la faccio mentalmente a stare seduto a fare un lavoro, sono troppo irrequieto, mi sarei depresso e sarebbe stata una morte: non si può andare contro la propria natura. Alla fine molli, come fanno tanti. Io sono stato fortunato perché quasi sempre faccio cose che mi piacciono».
Cosa non le piace del suo lavoro?
«Da quando ho iniziato, il mestiere dell’attore è molto cambiato. Ora non ci si può più permettere di avere una sarta, un segretario che ti accompagna. Faccio tutto da solo, parto con lo zaino in spalla come quando avevo 19 anni. Ci metto tre camicie, la tuta, i trucchi, il pc, il copione, due libri da leggere se mi annoio… perché in tournée ti ritrovi solo. Ho anni di solitudine alle spalle. Solo a Napoli c’è sempre qualcuno che ha voglia di chiacchierare. Napoli è la zia che ti piace, che ti fa ridere e che ti dà le cose buone di nascosto dalla mamma».
Nel libro racconta anche la morte prematura della sua mamma. In che modo questa perdita ha cambiato il corso della sua vita?
«Ho perso mia madre troppo presto, avevo 8 anni. Quel velo di malinconia di cui parlavamo è dovuto anche a questo. Un ragazzino ha bisogno che la mamma lo saluti la notte prima di addormentarsi e al mattino quando si sveglia. Le cose che disturbano gli adolescenti sono le stesse che fino a qualche anno prima li fortificavano».
Nel suo libro scrive che il volto della Dea Roma ha due facce, quella di Anna Magnani e quella di Gabriella Ferri. E ora? Sono cambiate?
«Ma chi le tocca, sono due divinità! Ce li ha ancora quei due volti, è superiore a Mafia Capitale e, nonostante tutto, è ancora una bella città. Ha resistito ai barbari, ai Barberini e ora sopravvivrà anche ai Barbablù e ai bari, che si attaccano alla zinna, come si dice a Roma, e la succhiano. L’Urbe si sciupa, la sua immagine si appanna, è délabré, ma basta restaurarla un pochino, rispolverarla e darle un alito di vita, perché la sua potenza non si lascia schiacciare da dirigenti ladri e funzionari. Io li chiamo “gli inamovibili”».
Cosa servirebbe?
«Meno opinionisti, più poeti».
Come mai ha deciso di raccontare tante cose private adesso?
«Per tanti anni, secondo la legge italiana, sono passato per carnefice e invece sono stato l’agnello sacrificale degli avvocati, delle mogli e dello Stato. Naturalmente un gentleman non fa nomi, quindi non mi metto completamente a nudo. È una confessione in mutande».
Tutto questo per festeggiare i suoi settant’anni?
«Io non ho settant’anni. C’è un errore anagrafico che mi porto appresso da quando sono nato. E se proprio ne devo parlare, mi piace pensare di avere vent’anni moltiplicati per 3,5. Questo è il mio coefficiente».
La prossima cosa che farà?
«Scriverò un altro libro. E se ho la forza vorrei trasformare il mio romanzo, Un alibi di scorta, in un film. Infine, portare Il Conte Tacchia in teatro».
Anche Confesso diventerà uno spettacolo?
«Mi ci sta facendo pensare ora».
Non l’ha scritto con questo intento?
«Forse sì, del resto gli attori scrivono per essere detti».