il Giorrnale, 30 novembre 2015
D’Alema il (finto) pacifista che ora vorrebbe «un intervento di terra» in Siria
Massimo D’Alema è una garanzia, mai un ripensamento, un accenno di autocritica, una breccia revisionista nelle certezze granitiche e immutabili, eternamente uguale a se stesso perfino nei baffi, nell’acconciatura e nel modo di vestire. Sempre un gradino sopra gli altri. E sempre bombarolo. Nel 1999 fu il suo governo a concedere all’Alleanza atlantica la base di Aviano. Le truppe della Nato partivano da lì nei raid per colpire gli obiettivi serbi, in un conflitto che dopo cinquant’anni riportò la guerra a poche centinaia di chilometri dai confini italiani.
Ora l’ex premier non si smentisce con la crisi innescata dagli attentati di Parigi. Mentre i governi occidentali invitano alla prudenza, l’ex ministro degli Esteri confida a Repubblica che «non si può escludere un intervento di terra» in Siria e nei territori controllati dall’Isis. Se Renzi tentenna, D’Alema no: all’armi.
Pacifista a parole, la sinistra italiana negli ultimi vent’anni ha sempre appoggiato le scelte belliche occidentali. Caduto il Muro di Berlino, finita la guerra fredda, crollato miseramente il comunismo reale dell’Unione Sovietica, gli eredi del Pci dovevano riposizionarsi nello scacchiere internazionale. E per fare accettare il passato all’ombra di Mosca, hanno sposato senza riserve la politica dei democratici americani. Massimo D’Alema, primo presidente del Consiglio italiano venuto dal Pci, è il simbolo di questa svolta.
D’Alema è nato sotto il segno della falce e martello. Suo padre Giuseppe era stato partigiano, funzionario del Pci e deputato. Da bambino, invece che lupetto scout, Massimo divenne «pioniere d’Italia» con i figli di Giancarlo Pajetta e alle scuole medie chiese l’esonero dall’ora di religione dichiarandosi ateo: era già convinto di essere un padreterno. Fu segretario della Federazione giovanile comunista e a 21 anni era capogruppo del Pci nel consiglio comunale di Pisa, dove frequentava la Normale; diresse l’Unità» già in decadenza e, dopo la svolta della Bolognina di Achille Occhetto, prese le redini dei due partiti post-Pci che non avevano ancora accantonato il nome «sinistra».
Era la seconda metà degli Anni ’90, dalle sue parti il pacifismo dilagava e più tardi sarebbe diventato predominante con la stagione delle bandiere arcobaleno; eppure D’Alema preferì schierarsi con quei guerrafondai degli Stati Uniti, guidati non da un repubblicano conservatore ma da un progressista come Bill Clinton. Alla caduta del governo Prodi (ottobre 1998) fu D’Alema a subentrargli grazie ai voti dell’Udr filoamericano di Francesco Cossiga e Clemente Mastella.
Il nuovo esecutivo, come poi ammisero i protagonisti, nasceva «per rispettare gli impegni Nato». E il nuovo premier (che aveva come vice Sergio Mattarella) non ebbe alcuna difficoltà, tra i primi provvedimenti adottati dall’esecutivo, a rendere disponibili non soltanto la base aerea di Aviano per le missioni dei caccia Nato, ma anche navi d’appoggio della nostra Marina e velivoli dell’Aviazione militare che si alzarono a scortare i bombardieri americani. E senza l’autorizzazione di un voto parlamentare.
D’Alema finto pacifista? Ad affermarlo fu lo stesso Cossiga, stratega dell’insediamento del primo post-comunista a Palazzo Chigi: «Non saremmo stati in grado di affrontare la crisi del Kosovo se avessimo avuto un governo Prodi. D’Alema, come tutti quelli educati alla scuola comunista, non è un pacifista». Del resto, il premier stesso rivendicò lo sforzo bellico che aveva autorizzato: «Quanto a impegno nelle operazioni militari noi siamo stati, nei 78 giorni del conflitto, il terzo Paese, dopo gli Usa e la Francia, e prima della Gran Bretagna. Parlo non solo delle basi che ovviamente abbiamo messo a disposizione, ma anche dei nostri 52 aerei, delle nostre navi. L’Italia si trovava veramente in prima linea».
D’Alema guerrafondaio? L’accusa gli arrivò da destra quand’era ministro degli Esteri, allorché si fece fotografare a Beirut sotto braccio di un deputato di Hezbollah, il partito combattente anti-Israele, e aprì ad Hamas mentre i miliziani palestinesi sparavano missili sullo Stato ebraico. Ma la medesima critica gli venne anche da sinistra quando il suo governo abolì la leva obbligatoria istituendo l’esercito professionale volontario.
Svolta epocale, di cui però pochissimi rammentano l’autore. Perché del «conte Max» si ricorda l’arroganza, la spocchia, la presunzione, l’antipatia per i giornalisti («iene dattilografe»), il veliero «Ikarus», le scarpe da un milione e mezzo di lire (perché «fatte a mano su misura») e Palazzo Chigi trasformato nell’«unica merchant bank in cui non si parla inglese», secondo la fulminante definizione di Guido Rossi, avvocato d’affari ed ex senatore indipendente del Pci.Ma al suo nome non è associata una riforma, una legge, un lieve segnale tangibile dell’azione politica e di governo, se non l’aver staccato Umberto Bossi da Silvio Berlusconi e aver creato la strana alleanza ulivista che nel 1996 elesse Romano Prodi abbattendolo nel 1998. E che incoronò come presidente del Consiglio il precursore di Renzi: un premier scelto nei corridoi della politica ma non eletto dal popolo.
Non c’è traccia nemmeno di un passo di politica estera che è la vera, grande, insoddisfatta passione dalemiana. Nel suo biennio alla Farnesina (2006-2008) non si registra nulla di memorabile e nemmeno nei due anni (2004-2006) passati a far nulla al Parlamento europeo. Svaniti nel nulla anche i tentativi di farsi eleggere membro della Commissione di Bruxelles (D’Alema si autocandidò in un’intervista alle «Invasioni barbariche») o segretario generale della Nato (se ne parlò un paio d’anni fa). Federica Mogherini l’ha lasciato al palo anche nella corsa alla guida della politica estera della Ue. Perfino Romano Prodi ha più ribalta mediatica come ex inviato speciale Onu nel Sahel.
Al povero Massimo restano però le interviste da presunto padre nobile della nostra diplomazia. Ed ecco che riaffiora la vena belligerante. «Non possiamo escludere in linea di principio di mandare un contingente sul terreno ha detto pochi giorni fa a Repubblica -. Potrebbe diventare inevitabile se le forze che oggi combattono l’Isis, e che noi dobbiamo sostenere di più e meglio, non ce la facessero o fossero addirittura travolte».E il governo italiano? Malmesso assai. L’esecutivo, secondo D’Alema, è «prudente» perché «l’Italia non è una grande potenza». E di conseguenza, pontifica l’ex ministro degli Esteri, la scelta è obbligata: «O riesce a giocare un ruolo internazionale sulla base di una iniziativa politica, oppure sta al proprio posto e tiene un profilo basso». Niente a che vedere con la grandeur dei bei tempi andati, quando mandavamo gli aerei a spianare il Kosovo. Addavenì Baffino.