il Giornale, 30 novembre 2015
Giuseppe Sgarbi, scrittore a 90 anni. Ecco chi è il papà di Elisabetta e Vittorio
«Era una donna brava». Giuseppe Sgarbi parla con voce lieve nello studio della sua vecchia casa di Ro Ferrarese, praticamente sotto l’argine del Po. Accoglie l’ospite con gentilezza, l’espressione è serena, ma si commuove quando parla della moglie Rina, morta poche settimane fa. Si asciuga gli occhi con un gesto pudico, appena accennato, e anche l’aggettivo scelto per ricordare l’amore di una vita testimonia il pudore di una cultura e di una generazione. «Nino», come in paese lo chiamano tutti, compirà 95 anni nel prossimo mese di gennaio. È il papà di Vittorio, il critico d’arte, e di Elisabetta, ex direttore della Bompiani che ha appena deciso di fondare una sua casa editrice. A 93 anni, nel 2014, ha pubblicato il suo primo libro e adesso è uscito il secondo, Non chiedere che cosa sarà il futuro. «Mio padre è uno scrittore», ha detto la figlia. Le sue pagine, un intreccio di ricordi e riflessioni, hanno l’eleganza di chi frequenta da sempre poesia e letteratura, e allo stesso tempo l’autenticità di chi ha vissuto per vivere e non per scrivere. «Mio figlio Vittorio mi ha chiesto di andare avanti», racconta. «Voleva che raccontassi qualche cosa sulle donne. Ma adesso, dopo quello che è successo, scrivo solo di mia moglie, di quando l’ho conosciuta, della nostra vita insieme. Anche se scrivere non è la parola esatta, visto che gli occhi mi hanno abbandonato da tempo e con mio grande dolore non riesco nemmeno più a leggere. Io parlo, racconto quello che mi viene in mente. C’è una persona che raccoglie quello che dico e poi lo rileggiamo insieme».
«A mia moglie Rina, che amo ora come allora», è la dedica del suo primo libro. E i riferimenti a lei sono continui. Racconta di quando danzaste insieme la prima volta: «Le regole di quel ballo volevano che fossi io a condurla e, invece, fu lei a condurre me. Cosa che, da allora, non ha smesso un solo giorno di fare...»
«È difficile parlarne, difficile spiegare a chi non l’ha conosciuta. Anche sul lavoro, siamo stati entrambi farmacisti, ma quella brava era lei. Senza di lei la nostra farmacia non l’avemmo presa. Vinse un concorso per una farmacia di Cologno Monzese, un negozio importante che avrà avuto dieci luci, e al momento della prova decisiva arrivò a correggere l’esaminatore. La sua formula è sbagliata, disse. Lui tenne duro ma poi dovette ammettere l’errore. Si scusò: forse sono un po’ stanco».
E ai figli sua moglie che cosa ha lasciato?
«Amore. Tanto amore. Certo potrei raccontarle molto anche dal punto di vista intellettuale. Di quanto aiutava Vittorio agli inizi, di quando andava alle aste per conto suo. Questa casa è piena di cose che ha comprato lei; mio figlio le indicava le cose interessanti e la somma massima da offrire. Poi lei decideva: se una cosa le piaceva offriva anche di più, se non le interessava si fermava subito. A mia figlia, che è anche lei farmacista, offrì di gestire l’attività, ed Elisabetta rispose che doveva seguire la sua strada. Eppure non era solo una donna di polso e di cultura, arrivava in cucina e si metteva a far da mangiare per tutti: il riso con il petto di folaga o gli spaghetti alla carbonara che piacevano a Vittorio. Per un periodo ha nutrito Elisabetta a forza di branzini».
I suoi figli si sono fatti strada tutti e due. Quando si è accorto che avevano qualche cosa di speciale?
«Subito. Li vedevo da piccoli e vedevo che non ero io che li istruivo, ma che si istruivano da soli. Si sono fatti per conto loro, anche dal punto di vista intellettuale. Un giorno un mio amico vide nel giardino dietro casa Vittorio seduto con dei volumi in mano. Gli chiese che cosa stava facendo. E lui rispose che stava leggendo gli ultimi libri della Bur, la collana della Rizzoli. Io in casa li avevo tutti e lui tutti li stava leggendo».
Suo figlio le rimprovera però scherzosamente gli anni del collegio... dice che fu una punizione immeritata.
«Allora fu mia moglie a contribuire in maniera decisiva alla scelta. Stava nascendo Elisabetta. Vittorio era un bambino vivace e doveva fare le medie, che in paese non c’erano, e avrebbe dovuto viaggiare su e giù con i mezzi, una soluzione che ci sembrava complicata. Mi ricordo che i suoi compagni delle elementari lo chiamavano ucialìna, occhialetti, quattr’occhi. Era la normale, piccola invidia dei bambini di agricoltori e di gente semplice, nei confronti del figlio del farmacista. Tra di loro però c’era anche Adelchi Mantovani, rimasto orfano di padre. Poi è diventato un pittore famoso, adesso vive a Berlino. Mio figlio ha contribuito a farlo conoscere e adesso sta preparando una grande mostra».
Eppure nei libri che ha scritto, nei suoi racconti familiari, i figli ci sono poco.
«Forse è vero. Ma sarebbe stato un atto di vanagloria parlarne troppo. Mi sarei compiaciuto dell’orgoglio che provo per loro. Però mi sono vicini, molto vicini. Lui quando arriva mi mette la mano sulla fronte, mi scompiglia i capelli e mi chiede sempre come stai vecchio mio?. Viene a trovarmi, ed è un irregolare anche in questo: a volte arriva alle due di notte e riparte alle sei del mattino. Capita che non lo veda nemmeno. Lei è qui ogni week end e, quando può, anche durante la settimana, è sempre preoccupata per la mia salute. Adesso, purtroppo, andiamo insieme al cimitero. Seguo sempre quello che fa e con la nuova casa editrice mi sembra che stia facendo una bellissima cosa. Spero solo che non sia un peso troppo grande».
Per quanto la riguarda c’è la curiosità per una vocazione di scrittore sbocciata a 90 anni. Come mai così tardi?
«L’unica verità è che non lo so spiegare. Da piccolo, alle elementari, scrivevo come tutti il diario. Allora era una cosa che usava molto e io mi ci dedicavo con grande passione. Ma scrivere davvero non mi era mai passato per la testa. Poi mia figlia, che di scrittori ne bazzica, ha cominciato a dirmi che dovevo fare qualche cosa di tutte le storie che raccontavo. È iniziata così, per scherzo, ma mi sembrava di avere scritto cose del tutto normali. Non avrei mai pensato che suscitassero questo interesse».
Lei però ha parlato spesso del suo amore per la poesia e i libri.
«Ho sempre letto molto, moltissimo, sin da bambino. Di tutto. La mia passione sono sempre stati gli autori classici. Ma ho letto anche poeti dialettali, come Alfonso Ferraguti che, vede, ho ancora qui sul mio tavolo, e che lontano da Ferrara pochissimi conoscono. In più la mia mente ha un pregio, o un difetto, a seconda di come lo si vuol vedere: i versi mi sono sempre rimasti in mente naturalmente. Anche adesso che sono vecchio recito a memoria interi brani, dall’Iliade all’Eneide fino al mio preferito Leopardi: Dimmi o luna: a che vale/ Al pastor la sua vita/ La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende/ Questo vagar mio breve/ Il tuo corso immortale?».
Qualcuno ha scritto che nei suoi ricordi non ci sono mai rimpianti e tristezza.
«Ho avuto la fortuna di guardare sempre serenamente al mio passato e non ho mai avuto motivo di sentirmi oppresso dalle circostanze, anche in quelle più difficili. Nei miei libri la nostalgia c’è, per i ricordi più lieti e felici. E ora, dopo la morte di mia moglie, quando la sera mi trovo a mangiare senza di lei, provo molta solitudine».
Nelle sue pagine c’è un protagonista, il Po: «Ho sempre amato la poesia e amo il fiume», ha scritto. «Perché il fiume è poesia. Della poesia ha tutto: struttura, metro, ritmo. Culla i pensieri. E racconta storie. E come la poesia, dà la vita».
«I miei ricordi più lontani sono legati alla casa di bambino a Stienta, poche case sulla riva sinistra del Po. E una volta il fiume si viveva molto più di adesso. Oggi anche chi abita vicino prende la macchina e se ne va. Io ricordo il mese di licenza dal corso allievi ufficiali, durante la seconda guerra mondiale. Lo passai tutto sulle spiagge e sulle isolette di sabbia del Po. Non ho mai dimenticato la pienezza di quei giorni. E pochi anni fa, avevo già superato i 90, mi sono fatto portare sull’argine, un giorno in cui c’era un meraviglioso tramonto. Con una videocamera l’ho ripreso per un’ora. Poi i miei figli mi hanno consigliato le musiche di accompagnamento. Ancora oggi quando sono di cattivo umore faccio tirare fuori la cassetta e mi passa».