La Stampa, 30 novembre 2015
Agli italiani i telegrammi piacciono ancora tantissimo. Ogni anno per spedirli spendono 28 milioni di euro
All’estero li hanno aboliti da un pezzo: sostituiti da sms e mail, i telegrammi avevano finito per provocare buchi colossali nei bilanci delle società postali di tutto il mondo. O quasi. Il nostro Paese, infatti, va controcorrente. Gli italiani sono così affezionati a questo modo antico e formale di esprimere la loro vicinanza in un lutto o in un’occasione gioiosa che ogni 12 mesi arrivano a sborsare 28 milioni di euro in telegrammi.
Lo racconta l’ultimo bilancio delle Poste. Ne spediamo oltre 10 milioni all’anno. Facendo i calcoli, sono 27 mila al giorno, inclusi domeniche e festivi, perché ora si può trascrivere il messaggio da recapitare, tassativamente entro la mattina successiva e sulla porta di casa, anche al telefono, online o via app. Spendendo poco: 100 parole sono 10 euro.
Più che affetto, in realtà, è tradizione. «Tutti sappiamo quanto in Italia siamo legati alle consuetudini del passato». Negli uffici centrali delle poste di Milano il fenomeno provano a leggerlo così. Ma ciò che accade è un fatto più unico che raro. E i numeri lasciano di stucco anche i dirigenti del servizio postale, abituati semmai a fare i conti con il tracollo della corrispondenza tradizionale. Le lettere, tolte quelle inviate da qualche ufficio o che, peggio, ci ricordano che abbiamo qualche conto da saldare, non esistono quasi più. Le cartoline? Da quando si possono inviare le foto dal telefonino e Facebook ci permette di condividere ogni momento della nostra vita in tempo reale sono quasi scomparse. Quella dei telegrammi, invece, è un’altra storia.
E che storia. Il nome deriva dal fatto che si trasmettono via telegrafo. Il primo dispaccio della storia è datato 24 maggio 1844. C’era scritta una citazione biblica dal libro dei Numeri: «What hath God wrought!», «Cosa Dio ha creato!». Firmato: Samuel Morse, l’inventore del telegrafo, che lo inviò da Washington a Baltimora. Centosessantadue anni dopo quello storico giorno, il 31 gennaio 2006, Western Union, la compagnia americana di comunicazioni che per prima, da fine Ottocento, sfruttò la tecnologia nascente della telegrafia, ha interrotto il servizio telegrammi. Anche l’India, dove il governo aveva sempre privilegiato questa strumento di comunicazione, nel 2013, ha fatto la stessa scelta.
Ma non sono casi isolati. In Australia i telegrammi non esistono più dal 2011. E sul Web ci sono decine di forum in cui nostri connazionali emigrati in altri Paesi si chiedono se è possibile inviare un messaggio telegrafico in Francia o in Germania. E raccontano la sorpresa: all’estero tanti non sanno nemmeno che cosa sono i telegrammi. Al contrario, in Italia, il momento di scrivere «stop» – anche se oggi si dice «punto» – non sembra essere ancora arrivato.
Da noi sette messaggi su 10 sono personali, inviati cioè da un privato all’altro. Per porgere le condoglianze e non solo: alcuni amano esprimere così gli auguri a una coppia che si sta per sposare e i complimenti per la laurea. Esistono formule augurali prestampate che si possono modificare. Ma i dispacci restano anche una comunicazione ufficiale. I provveditorati usano il telegramma per convocare gli insegnanti per le supplenze e notificare una bocciatura. Nei tribunali servono per confermare le date delle udienze.
Nemmeno la posta certificata è riuscita a scavalcare questi «tweet d’antan». Come nei moderni cinguettii inventati da Jack Dorsey e company, infatti, anche nei telegrammi bisogna ottimizzare i caratteri a disposizione per non pagare troppo. Tutto torna. Non solo nella moda. Anche in tecnologia.