Corriere della Sera, 30 novembre 2015
Limiti, ma anche risultati, dei raid aerei in Siria
Se fosse vera la metà di quello che ha affermato il ministro della Difesa russo, a proposito degli obiettivi centrati dagli attacchi alle basi jihadiste dell’Isis in Siria, ci sarebbe da inneggiare alla Russia e al tanto bistrattato «zar» Putin. Inoltre, ci si dovrebbe anche domandare cosa abbiano prodotto fino ad ora le migliaia di raid della coalizione capeggiata dagli Stati Uniti. Dove sta la verità? Ci può aiutare a comprendere? Emma Menegon
emmamenegon@hotmail.it
Cara signora,
Sulla utilità dei bombardamenti alleati esistono opinioni discordanti. Sino a qualche settimana fa i vertici militari americani li consideravano efficaci, mentre gli ufficiali sul campo e parecchi analisti giudicavano i risultati inferiori alle aspettative. Per un quadro più obiettivo occorrerebbe sapere quali fossero le strategie dei singoli Paesi e i loro bersagli preferiti. Troppo spesso abbiamo avuto l’impressione che qualcuno evitasse di colpire l’Isis per concentrare i propri sforzi sugli oppositori del regime di Bashar al Assad.
Vi è un fatto, tuttavia, a cui non è stata data sufficiente importanza. Dalla conclusione della battaglia di Kobani (la città curda al confine con la Turchia, investita dall’Isis alla fine del 2014) la situazione sul terreno è cambiata. Le milizie curde dell’Ypg (Forze di Protezione popolare) hanno riconquistato i settori della città caduti nelle mani degli islamisti e, nel luglio di quest’anno, hanno strappato ai loro nemici il controllo di Tal Abyad, un altro centro sulla frontiera con la Turchia. Come ha ricordato sull’ultimo numero della “New York Review of Books” un giornalista (Jonathan Steel) che ha recentemente visitato la regione, i curdi controllano ormai due dei tre valichi di frontiera da cui passano uomini e materiali destinati allo Stato islamico. Il terzo, Jarabulus, potrebbe essere l’obiettivo della prossima offensiva curda. Sul fronte iracheno, nel frattempo, l’Isis ha perso Tikrit. Può darsi che i bombardamenti, nel frattempo, non abbiano dato tutti i risultati sperati; ma hanno distrutto molti pozzi di petrolio, vale a dire la principale fonte del denaro con cui l’Isis paga la guerra. Da queste nuove circostanze derivano effetti psicologici nelle file dell’Isis. È cresciuto il numero dei disertori e di quelli che, catturati, vengono passati per le armi. È cresciuto il numero dei civili che fuggono dalle zone dell’Isis.
È possibile che tra questa situazione sul terreno e gli avvenimenti europei esista una relazione. Quanto più si avvicinava il momento in cui l’Isis avrebbe dovuto rinunciare a una parte delle sue conquiste, tanto più l’organizzazione cercava di spostare la guerra sul fronte interno dei suoi nemici. I servizi britannici avrebbero intercettato negli scorsi giorni un messaggio del Califfato ai jihadisti britannici: una esortazione a restare in Gran Bretagna per progettare e realizzare nuovi attacchi contro gli infedeli. Dovremmo quindi rinunciare a combattere l’Isis sul terreno per evitare che ci colpisca nelle nostre città? No, la sconfitta in Siria e in Iraq dimostrerebbe che i terroristi non possono disporre di uno Stato e darebbe un colpo mortale alla loro immagine.