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 2015  novembre 30 Lunedì calendario

Nel magazzino di quello che resta del Bataclan. Tra giacconi, rossetti e libri di matematica sottolineati

E allora messi così, uno accanto all’altro, il parka verde, il cappotto marrone, il soprabito blu, l’impermeabile nero, il piumino lucido, il giubbotto con la pelliccia, e poi ancora qualche felpa, le sciarpe colorate, i grandi colli di lana incrociata bianca, visti così uno accanto all’altro, sembra che l’inferno del Bataclan non sia mai esistito. Che questo sia l’ordinato guardaroba del 13 novembre, e che dall’altra parte del telone prima o poi spuntino quei matti degli Eagles of Death Metal e si mettano a picchiare sugli strumenti, a urlare “ha-ha-ha...I want you so hard”, e poi i ragazzi comincino a pogare e la sala si riempia all’improvviso di quell’inconfondibile odore di sudore da concerto rock. Potrebbe essere così. E invece non accadrà mai. Perché questa stanza non è il guardaroba del Bataclan. Ma la sua riproduzione identica e tremenda: questa stanza è l’ufficio delle cose perdute, il magazzino di quello che resta di quella sera, giacconi, felpe, borse, portafogli, oggetti che hanno resistito al terrore e sono sopravvissuti ai loro proprietari.L’ufficio delle cose perdute si trova al 36 di quai des Orfevres, che è l’indirizzo della polizia di Parigi ma anche il titolo di uno dei migliori noir recenti del cinema francese. Fuori i turisti sul Batobus scattano le fotografie, Parigi sembra riprendere lentamente a vivere. All’ingresso, in un cortile delimitato con un nastro giallo, ci sono automobili e motociclette sequestrate che aspettano di essere ritirate dai loro proprietari. All’ingresso accanto ai poliziotti che fanno da guardia al metal detector, ci sono due ragazzi, un uomo e una donna. Avranno meno di 30 anni. Fanno parte della squadra degli angeli del Bataclan, una foltissima schiera di volontari che in questi giorni stanno cercando di riattaccare i pezzi della notte che ha sconvolto il mondo: c’è chi si occupa di indagini, chi di anime. A loro invece è toccato curarsi degli oggetti. Il loro compito è chiedere cosa si è smarrito e dove. Sono loro a portarti, attraversando i cortili del palazzo, in un ampio cortile che serve, principalmente, a fare fumare e scherzare i poliziotti di turno. È il primo pomeriggio e due agenti giocano a togliersi il berretto. Un cartello dice “Vestiares Bataclan”, e sotto una freccia indica una porta immediatamente sulla destra. Bisogna salire tre gradini per entrare in quel tempo fermo. In quella schiera ordinata e ben catalogata di abiti e di oggetti: potrebbe essere stato il sequestro di un magazzino di vestiti, un carico di merce rubata. E invece è quello che resta del Bataclan.Due ragazzi si occupano dell’accoglienza. Anche qui un uomo e una donna. Sono assai gentili. E altrettanto provati. Hanno davanti una pila importante di verbali di riconoscimento. È la traccia di chi è passato, di chi passerà, e forse di chi invece preferirà seppellire qui i ricordi. Di chi è per esempio quel grande fazzoletto blu? Il maglione a collo alto nero imbustato come fosse appena uscito dalla lavanderia? E la borsa marrone piena di penne e di rossetti? Lo zaino grigio dal quale spuntano disegni colorati di qualche bambino? Chi stava leggendo la storia di Lisbeth Salander? Chi sottolineava libri di matematica? Cosa ci sarà in quel tablet? Chi conosce il codice per sbloccarlo? Per terra in una scatola marrone ci sono gli oggetti più piccoli: forse piccoli gioielli, fogli, essendo un deposito giudiziario non si può essere troppo precisi su quello che si è ritrovato, soprattutto quando è prezioso. Gli sciacalli potrebbero approfittarne.Un enorme telo bianco nasconde invece quello che non si può vedere e divide in due la stanza: quello che si è sporcato e che porta ancora l’odore di quella notte. Si apre la porta ed entra una signora. Avrà una quarantina d’anni. È bionda e magra, il viso di chi ha pianto tanto. Dice che suo marito era al Bataclan, e che ora non c’è più. Racconta di essere belga e di aver letto sul giornale che era possibile recuperare gli effetti personali di suo marito. La fanno accomodare. Le cominciano a chiedere dell’abbigliamento di suo marito quel 13 novembre, se avesse una giacca, se portasse una borsa. Una delle due persone dell’ufficio cose smarrite, la ragazza, cerca un fascicolo sul tavolo. Lo prende e comincia a segnare sul foglio. Fa qualche domanda, poi si interrompe. Si alza e prende, da uno dei due computer portatili sistemati accanto agli stand dei cappotti, un pacchetto di fazzoletti. «Con calma, immagino. È molto difficile».Non è difficile. È troppo. Troppo, ricostruire questo puzzle della generazione Bataclan, conservare e riattaccare pezzi di vite che non avevano nulla in comune, se non la voglia di vivere. «Erano a un concerto rock. Volevano spaccare tutto: quando mio figlio si è svegliato la mattina, se gli avessero detto che la sera sarebbe morto, avrebbe detto semplicemente: impossibile», dice il papà di Guillaume. Era impossibile morire per Nataliè, che al Bataclan era di casa, perché ci lavorava, ma quella sera no: aveva recuperato un biglietto per gli Eagles ed era lì in prima fila. O per Cecile, psicologa, che magari nasconde ancora in qualcuno di questi giubbotti le parole per poter spiegare a sua figlia, di tre anni, che la mamma non c’è più. Da qualche parte, magari, ci sarà qualche disegno di Arianne, illustratrice, 24 anni. Oppure qualcosa di Hugo che amava ripetere, tutte le volte che era necessario: «Sai perché cadiamo Bruce? Per imparare a rimetterci in piedi». Una delle migliori battute di Batman.