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 2015  novembre 30 Lunedì calendario

Ritratto di Albert Rivera, l’anti-populista che rischia di vincere le elezioni spagnole

Barcellona. È l’antipopulista; eppure è il leader più popolare di Spagna. Un rivoluzionario borghese. In poche settimane Albert Rivera ha portato i suoi Ciudadanos, Cittadini, dall’11 al 23% nei sondaggi: secondo “El Pais” ha raggiunto il Pp, superato i socialisti e staccato Podemos di Pablo Iglesias, il rivoluzionario con la coda da tanguero. Stessa generazione – Iglesias è del 1978, Rivera del 1979 —, stessa avversione ai partiti; eppure non potrebbero essere più diversi. Iglesias, che è di Madrid, reclama un referendum per l’indipendenza catalana; lui, che è catalano, difende la Spagna unita. Iglesias è contro «l’Europa tecnocratica»; lui chiede un esercito europeo, una polizia europea, un servizio segreto europeo. Iglesias vuole ridurre lo stipendio del primo ministro a 45 mila euro; lui vuole aumentarlo a 300 mila, «perché il presidente del governo non può guadagnare meno di un burocrate». Iglesias vuole portare la Spagna fuori dalla Nato; lui vuole che la Nato faccia la guerra all’Isis.
«Sì, sono a favore di un intervento multinazionale in Siria, se i Paesi della Nato si coordinano e hanno il via libera dalle Nazioni Unite. Dobbiamo combattere lo Stato Islamico come abbiamo combattuto i talebani in Afghanistan». Proprio ieri mattina Rivera ha presentato il suo programma qui a Barcellona, al teatro Apollo, ai piedi del Montjuïc, la collina dell’Olimpiade del 1992. Camicia bianca senza cravatta, giacca grigia, ha più presa sulle teste che sulle anime, è più svelto che non carismatico, più abile nel dialogo che nell’oratoria. Le fan lo considerano bellissimo, anche se è bassino. La Spagna vota fra tre settimane, il 54% è contro l’intervento in Siria: il premier Rajoy evita di incontrare Hollande per non prendere impegni, tutti i candidati danzano attorno alla guerra, evitano la questione come la peste. Tutti tranne Rivera. Non è entusiasta di tornare sull’argomento, precisa di non aver mai parlato di truppe spagnole, ma conferma la sostanza: «L’Europa è stata attaccata, l’Europa non può stare a guardare. Non possiamo delegare tutto alla Russia e agli Stati Uniti; dobbiamo prenderci le nostre responsabilità». E poi, aggiunge sorridendo, «noi di Barcellona abbiamo un legame fortissimo con la Francia. La consideriamo un po’ la Catalogna del Nord».
Il programma è quello di un estremista di centro. Il colore è l’arancione. L’ambizioso punto di riferimento è la Costituzione di Cadice del 1812, «la prima volta in cui gli spagnoli rifiutarono di essere sudditi, e pretesero di essere cittadini» spiega. Il modello inconfessato è Adolfo Suarez, il centrista che guidò la transizione dal franchismo alla democrazia, l’unico premier di cui non parla male. «Popolari e socialisti hanno portato la politica a impadronirsi della società. La giustizia, la sanità, la scuola: tutto è politicizzato. Noi abbiamo due obiettivi. Restituire il potere ai cittadini. E ricostruire la classe media. La piccola borghesia ha subito colpi durissimi in questi anni. Dobbiamo salvarla, perché non esiste una democrazia senza classe media». La proposta è diminuire tutte le aliquote Irpef di tre punti, tagliare l’Iva, riconoscere sei mesi di permesso pagato alle mamme, sostenere con un contributo statale gli stipendi più bassi. Ma come trova i soldi? «Convincendo gli spagnoli a pagare le imposte. E diminuendo il ceto politico e la burocrazia. Il Senato non si riforma; si abolisce. Via anche le province. Accorperemo tutti i comuni sotto i 5 mila abitanti». Ma Rajoy già ha lanciato lo slogan «il mio paesino non si tocca». «So bene che da qui al voto sarò al centro degli attacchi di tutti. La cosa non mi spaventa. Vorrà dire che saremo al centro in ogni senso».
Il suo debutto sulla scena pubblica fu nel 2001, alla finale della «Liga nacional de debate universitario», una gara di dibattiti. La domanda decisiva era: la prostituzione è un mestiere come gli altri? Lui doveva sostenere le ragioni del sì. Improvvisò un piano per combattere gli schiavisti del sesso, far pagare le tasse alle prostitute e imporre controlli sanitari. Vinse. Da allora ha molto esercitato la sua versatilità (tranne che in amore: ha sposato la fidanzata dell’adolescenza, Mariona, con cui ha una figlia, Daniela). È repubblicano, ma trova il nuovo re Felipe VI «esemplare, sensato, modernizzatore». È agnostico – «la penso come Buñuel: mi piacerebbe credere, ma non ci riesco» —, però è contrario alla proposta laicista del governo catalano che vorrebbe chiamare il Natale «festa d’inverno» e la settimana santa «festa di primavera». Propone un testo per l’inno spagnolo (che ha solo musica e non parole: non se ne sono mai trovate che andassero bene a tutti, erano sempre troppo antifranchiste o troppo poco, troppo centraliste o troppo separatiste), che comincia così: «Ciudadanos, ni héroes ni villanos». Ha un po’ l’aria da primo della classe, però quando in tv gli hanno chiesto cosa farà della centrale nucleare vicino a Burgos ha risposto candidamente: «Non lo so».
Ieri, nella sua Barcellona, ha ribadito di essere contrarissimo non solo all’indipendenza catalana, ma anche al referendum: «Non si tratta di decidere se costruire o no un’autostrada. Si tratta di decidere se distruggere o no la Spagna. Non sono cose da affidare all’emotività del momento. Noi la Spagna la vogliamo rigenerare, distruggendo la corruzione. Cominciamo qui, a casa nostra. Facciamola finita con il clan Pujol e con i suoi eredi, che usano l’identità catalana per i loro comodi. Nelle nostre liste non ci sono politici di professione. Ci sono professori, manager, imprenditori, studenti. Cittadini».
Il sondaggio del “Pais” gli attribuisce un tasso di approvazione del 51%; Iglesias è al 30, Rajoy al 26: anche perché continua a sottrarsi ai dibattiti, come se avesse qualcosa da nascondere. Questo non significa affatto che Rivera vincerà le elezioni. I popolari, da quando lui ha escluso di sostenere il ritorno di Rajoy alla guida del governo, lo accusano di essersi venduto alla sinistra. Il socialista Sanchez lo definisce «una sottomarca della destra». Monedero, cofondatore di Podemos, gli ha dato del cocainomane. Iglesias lo considera una sua brutta copia, creata in laboratorio dalle perfide banche e dalle infide multinazionali per frenare la sua ascesa. In effetti Rivera riceve finanziamenti dall’establishment spagnolo; e questo può essere un punto debole. La sua fortuna nasce dal disgusto degli elettori del Partido popular, stanchi di scandali ma diffidenti della sinistra.
È probabile che da qui al 20 dicembre Rajoy crescerà, e alla fine Rivera debba scendere a patti. Ma è ancora possibile una sorpresa all’insegna del cambiamento. In ogni caso, il trentenne catalano ha già dimostrato di essere una vera novità della politica spagnola ed europea. Anche per il coraggio nel parlare di Siria in campagna elettorale: «Nessuno vuole la guerra. Non conosco nessuno che abbia due dita di fronte, insomma un po’ di sale in zucca, e voglia la guerra. Ma lo Stato Islamico non si sconfigge con un minuto di silenzio. Per carità, il minuto di silenzio è necessario. Ma è necessario anche un intervento congiunto, secondo gli accordi Nato. Non possiamo tollerare né concepire che i crimini dello Stato Islamico lascino l’Europa inerte. L’Europa deve ritrovare l’orgoglio della propria identità. Dobbiamo sapere chi siamo, e soprattutto chi vogliamo essere».