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 2015  novembre 29 Domenica calendario

C’era una volta la fiaba di Hans Christian Andersen, il figlio di un ciabattino che nacque in una bara e che visse infelice e scontento

C’era una volta un tale che si chiamava Hans Christian Andersen. Ma pochi se ne accorsero. Ecco, la storia della sua vita (anzi, La fiaba della mia vita, come la chiama lui), sta tutta in due righe. Certo, in molti lo conobbero e lo frequentarono (non troppo volentieri). Certo, le raccomandazioni di qualche big, a cominciare dal re di Danimarca Federico VI, il quale gli elargì il primo di una lunga serie di sussidi con cui si mantenne, gli spianarono il cammino sulla via della celebrità. Ma nessuno si accorse di chi fosse veramente, né tantomeno di chi voleva essere. Così la fiaba della sua vita fu la prima che scrisse, incominciando a 27 anni, nel 1832, e terminando a 63, sette anni prima di morire, vittima di un cancro al fegato. Ora, uno che pone mano all’autobiografia a 27 anni, o è un megalomane o è un incompreso. E non c’è dubbio che per il figlio del ciabattino nato in una bara (da una bara il suo povero papà aveva infatti ricavato le assi per costruirsi il letto matrimoniale) valga la seconda. Oltre che brutto, l’anatroccolo Hans Christian era anche piagnucoloso e introverso. Gli altri bambini di Odense, la città natale, lo sbertucciavano e lo chiamavano «femminuccia» e lui, invece di rispondere per le rime o di passare alle vie di fatto sfruttando l’altezza (arriverà presto oltre il metro e ottanta) correva a rifugiarsi sotto le ali della mamma. Le visite in manicomio al nonno non gli risollevavano il morale e, da adolescente, sia la scuola, dove giunse tardivamente a causa della sua asocialità, sia la bottega, dove venne mandato più che altro per sapere dove parcheggiarlo, data la sua abitudine di vagare senza meta tutto il santo giorno, si rivelarono covi di nemici. Poste queste premesse che leggiamo nelle prime cento pagine di La fiaba della mia vita (in libreria per i tipi di Donzelli oltre mezzo secolo dopo l’uscita dalle Edizioni Paoline – pagg. 752, euro 35, a cura di Bruno Berni), ci aspetteremmo dalla fluviale confessione dell’autore una discesa nel Maelström dei suoi turbamenti (anche sessuali, vista la totale assenza di relazioni intime con chicchessia attestata dai biografi, i quali per solito accennano soltanto ad alcuni amori platonici per alcuni ragazzi), o almeno una rivincita sui molti detrattori della prima ora. Invece no, ad affascinare, in questa cronofiaba della vita di uno fra i più grandi creatori di fiabe è la sua arrendevolezza, il suo confidare nell’aiuto del buon Dio e del Destino, la sua patologica convinzione della radicale bontà del genere umano. Andersen è il Forrest Gump dell’Ottocento europeo: è nella storia, ma non se ne rende conto, vive in una propria dimensione, gli eventi gli scivolano addosso. Il suo non è egocentrismo, ma egoperiferia, una bolla di sapone che vola in lungo e in largo per tutto il continente in 29 lunghissimi e a volte tragicomici viaggi. E incontri, soprattutto.
Si parte con Søren Kierkegaard. Il futuro filosofo dell’esistenzialismo esordì nel 1838 con il saggio Dalle carte di uno ancora in vita, che non è altro che la critica feroce a Soltanto un violinista di Andersen. Si erano incontrati per strada a Copenaghen e Søren gli aveva promesso una recensione. Hans Christian lo ringraziò. Ma poi lesse il libro... «Allora mi riuscì di capire che non ero un poeta, ma una figura poetica uscita dal mio gruppo, e che era compito di un artista futuro rimettermici, o servirsi di me come personaggio di un’opera in cui avrebbe creato una mia copia! Più tardi compresi meglio quello scrittore, che in seguito mi ha trattato con amicizia e indulgenza». Ecco, indulgenza. È questo il massimo che Andersen spesso riceve dagli altri grandi. Passiamo a Parigi. «Il gioviale Alexandre Dumas (padre, ndr) in genere lo incontravo a letto, anche se mezzogiorno era passato da un pezzo»: dunque quell’ospite non meritava il minimo riguardo. Dumas lo porta in giro la sera per teatri, e all’altro non par vero di avere cotanta guida. Interessata però alle grazie delle ballerine dietro le quinte, non alle domande di quello strano lungagnone venuto dal profondo Nord... Sempre a Parigi, molti anni dopo, ecco una scena simile. Ad Andersen presentano Gioachino Rossini, il quale gli dice di conoscerlo bene, come no! Poi arriva un tale che saluta il Maestro e questi risponde: «Mon Prince! Sono qui con questo poeta tedesco...». Il terzo fa notare che Danimarca e Germania sono appena state in guerra fra loro. Incidente diplomatico chiuso con dono ad Andersen di cartolina con autografo e pacca sulla spalla. Restando in tema di musica, a Weimar, capitale del wagnerismo, va in scena il Lohengrin, alla presenza di Liszt, fervente wagneriano. Alla fine della rappresentazione, questi raggiunge nel palco Andersen e gli chiede: «Che ne pensa?». Risposta: «Sono mezzo morto!». Che alle orecchie dell’ungherese sarà suonato grosso modo come il giudizio fantozziano sulla Corazzata Potëmkin. Esilarante per tutti tranne che per la solita vittima è la scena che si svolge in casa di Jacob Grimm. «Vengo senza lettera di presentazione, perché spero che il mio nome non le sia del tutto sconosciuto!». «Chi è lei? Non credo di aver mai sentito il suo nome. Cosa ha scritto?». Nomina le sue fiabe. «Non le conosco. Ma sono contento di conoscerla; devo presentarle mio fratello Wilhelm!». «No, grazie!».
Per Dickens, Andersen aveva preso una cotta forse non soltanto letteraria. Si conobbero e si piacquero, ognuno a modo suo. Fra giugno e luglio del 1857 Hans Christian fu ospite da Charles per un mesetto. Quando se ne andò, il padrone di casa affisse un cartello sulla porta della stanza da letto occupata dal brutto anatroccolo. C’era scritto: «Hans Andersen ha dormito in questa stanza per quattro settimane che alla famiglia sono sembrate un’eternità». E vissero tutti tristi e scontenti.