il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2015
«Grazie a papà, a Enrico IV e alle cosce di Laura Antonelli». Marco Giallini spiega come da imbianchino è diventato attore
Mestieri e fortune di Marco Giallini: “Consegnavo le bibite, imbiancavo i muri, nella vita ho fatto di tutto. Però non ho mai chiesto niente a nessuno e in fondo ho sostenuto pochissimi provini. Nel cinema sono stato catapultato da un giorno all’altro, soprattutto grazie a Valerio Mastandrea. Fece il mio nome a Marco Risi: ‘Dovresti venire a teatro – gli disse – c’è un mio amico che è fortissimo’ e lui, Marco, a vedere Casamatta Vendesi di Angelo Orlando, venne davvero. Gli piacqui. Mi offrì un’occasione ne L’ultimo Capodanno: ‘Faresti il marito di Monica Bellucci?’. Capirai, non gli feci ripetere la frase. C’erano almeno quindici persone in fila prima di me e per farmi ottenere la parte, Risi dovette lottare. Cominciò tutto così, nel 1998”. L’anno de L’odore della notte di Claudio Caligari: “Anche lì, con Mastandrea” e dell’arrivo sugli schermi di un trentacinquenne di periferia di cui nessuno aveva mai sentito parlare. C’è voluto tempo: “Anche se avevo già un decennio di teatro sulle spalle”. Pazienza: “Dicevano domani e poi domani non arrivava mai”. Umorismo: “Perché all’inizio naturalmente sembravo a tutti un animale strano e alle feste in cui le ragazze erano bellissime e avevano lo stesso nome delle vie consolari, le porte in faccia erano la regola. ‘Arriva l’uomo misterioso e un po’ selvaggio da fuori – pensavo – e annoiate come sono, proprio come nei film francesi che amava mio padre, Porzia, Ginevra e Flaminia cadranno ai piedi dello straniero con la barba e i capelli lunghi’. Invece saltavano sempre al collo di qualcun altro e mi mandavano regolarmente in bianco”.
Travestimento dopo travestimento, lasciando le Gauloises nell’angolo: “Le fumavo per posa, ora son passato a cose più leggere”, Marco Giallini è riuscito a superare il filtro del pregiudizio e a farsi prendere sul serio. Nel suo ultimo film (Loro chi?, di Fabio Bonifacci e Francesco Micciché, distribuisce Warner) è un truffatore cinico che abborda l’ingenuo Edoardo Leo stravolgendogli programmi ed esistenza: “Una fenomenologia del sòla, direbbero quelli più colti di me, molto divertente e ben scritta. Loro chi? è una commedia girata tenendo a mente gli esempi di un certo cinema americano”.
Quali esempi?
«La lezione dello spettacolo senza sosta, dell’adrenalina continua, del colpo di scena. Ho detto americani perché adesso è più facile pensare al loro cinema, ma negli Anni 70, certe cose sapevamo farle benissimo anche noi».
Negli Anni 70 si producevano oltre trecento film l’anno.
«Era una grande industria e com’è noto, gli introiti del cinema di genere permettevano a chi cercava la prova d’autore di poterla affrontare senza mandare in bancarotta il produttore. Le Giovannone, i poliziotteschi di Umberto Lenzi e Di Leo, il Malizia di Salvatore Samperi con Alessandro Momo che per spiare le cosce delle Antonelli finge di fare ginnastica. Tutti li ho visti».
Come scoprì il cinema?
«Papà aveva fatto la terza elementare, ma per il cinema gli era presa proprio brutta. Aveva poca cultura, denti bianchissimi e un amore per i film che non si può spiegare. Me l’ha trasmessa lui ‘sta passionaccia. Una volta vide Amedeo Nazzari sulla Nomentana e per salutarlo si fece quasi investire. Gli arrivò davanti, quasi lo abbracciò, non lo lasciava più andar via. Papà magari non sapeva mettere l’accento su Belmondo e diceva Godarde al posto di Godard, ma anche senza avere tutti gli strumenti necessari per capire, non si intimidiva e guardava anche i suoi film. Se veniva a sapere di un set non lontano da casa nostra, si precipitava. Andammo in pellegrinaggio da Blasetti solo per vedere con i nostri occhi Gina Lollobrigida».
Il suo interno di famiglia?
«Gente allegra e grandi lavoratori con panorama su una Roma ancora non del tutto divorata dai palazzinari. Eravamo circondati dai campi, dalle cose semplici, dai sacrifici che erano un evento assolutamente naturale. Mia madre Elsa con un pezzo di carne cucinava per tre giorni. Io mi mettevo calzini e pantaloni di mio fratello maggiore e il primo paio di Levi’s, giuro, me lo sò comprato a ventisei anni. Mio zio tirava il collo alle galline mentre dietro la rete del pollaio ci chiedeva come se nulla fosse a che ora saremmo tornati a casa. Oggi chiamerebbero il Telefono azzurro, all’epoca, per dove sono nato io, era tutto assolutamente normale. Le ferie al mare erano un lusso inimmaginabile. Ma nun ce ne importava niente, a noi Giallini, delle vacanze. Papà il mare l’aveva visto a Marsiglia, durante la guerra, con i bersaglieri. Gli era bastato per sempre».
Sua madre?
«Era una donna mora di uno splendore fuori dal comune. Papà era geloso e di mamma ero geloso anch’io: per strada non c’era uno che non la guardasse. Se credevano che io nun me ne accorgevo, ma io me ne accorgevo invece. E me li segnavo tutti a dito. Però le posso di’ una cosa?».
Dica Giallini.
«Anche questa storia delle origini povere, se è tirata per le lunghe, puzza di retorica. Mi è andata bene e non mi è mancato nulla. Ho sempre mangiato. Anzi, a casa mangiavamo come pazzi. Per il resto, non mi sento un attore preso dalla strada. Non c’è Accattone, non c’è Pasolini, non c’è, scusi il gioco di parole, il ricatto del riscatto. Avevo recitato per anni in teatro con Foà e Coltorti. Avevo una base. Un piccolo patrimonio da spendere».
Niente retorica allora. Ci dica chi la portò al cinema per la prima volta»?
«Per i film vietati ai 14 anni, i biglietti ce li comprava direttamente il bidello Carlone e se Carlone proprio non poteva, rimediava Aldo, il proiezionista. Le ho detto di Malizia, no?».
Me l’ha detto.
«Ecco, nel mio immaginario, dopo Sergio Leone, c’è proprio Salvatore Samperi. A suo tempo Malizia una scossa me l’ha data».
E cos’altro le diede la scossa da ragazzo?
«Romolo Valli in Enrico IV all’Eliseo quando avevo sedici anni e la leva militare. Fu molto dura e quando mi chiamarono mi sembrò di morire. La feci nel 1983, alla Caserma Valfrè di Bonzo di Alessandria, in un edificio rosso e imponente che una certa angoscia la metteva. La caserma era una specie di punizione permanente. C’era anche Paolo Belli, il cantante. Combinai qualche disastro e mi beccai una punizione memorabile, fu un mezzo incubo».
Oggi sarebbe diverso?
«Vedevo le Alpi per la prima volta, mandavo le cartoline agli amici e quando tornavo per le visite mi chiedevano: “A Giallo, ma ndò cazzo sta de preciso Cuneo?”».
Erano in molti a chiamarla Giallo?
«Tra gli amici veri, in tanti. C’era Lallo di Casal Bertone che oggi fa il meccanico a Portonaccio ed è tale e quale a ieri e insieme a lui tanti altri con cui in un tempo diverso e lontano, ci siamo divertiti».
A loro fa impressione che Giallo lavori nel cinema?
«Avrebbe fatto impressione a mio padre, uno che stravedeva per i film francesi in cui una sigaretta e un primo piano potevano durare anche dieci minuti e che per incontrare Michel Piccoli avrebbe dato chissà che. Posso esse retorico io adesso?».
Tutto quello che vuole.
«Se Papà mi avesse visto in concorrenza con Michel Piccoli ai David di Donatello si sarebbe sentito male. Se ne è andato quando facevo ancora l’imbianchino, non ha fatto in tempo».
Lei per che cosa si è sentito male?
«Per tante cose. Alcune serie e definitive, dolori intimi e personali di cui non voglio più parlare e altre più leggere. Ho sempre avuto difficoltà a seguire le regole. Da scuola scappai per la prima volta a quattro anni».
Come andò?
«Ero dalle suore, mi calai da una finestra e mi recuperò un poliziotto, Piero Ciampolini, con la Lambretta verde. Mi attaccai a Ciampolini. In moto non ero mai salito. Se chiudo gli occhi posso sentire ancora il rumore del brecciolino in curva. Il ritaglio de Il Messaggero parlava chiaro: “Eroico poliziotto salva un bambino disperso”».
Poi in moto è salito spesso.
«Non sono andato semplicemente in moto, sono stato un motociclista. Sa cosa mi dicevano gli amici? Che con la moto io scrivevo, quando me ne andrò sul serio mi farò scrivere la frase sulla lapide».
Motociclista non prudente.
«All’epoca in cui dovevo lavorare per Sollima in moto mi feci male, ma male veramente. Decine di fratture, un bel casino. Di lì a tre mesi avremmo dovuto iniziare a girare. Il medico disse: “Ci vorrà almeno un anno”. Novanta giorni dopo ero in piedi. Con le stampelle, ma in piedi. Sollima mi aspettò. Se guarda con attenzione Romanzo Criminale si accorgerà che in alcune scene sono in carne e in altre magrissimo. Ero arrivato a pesare 68 chili e normalmente ne ho almeno una quindicina in più. Qualche danno l’ho creato anche in Loro Chi?».
Danni al volante?
«Di una Maserati pazzesca. Non mi pareva vero di guidarla, ero un po’ emozionato e mi si è infilato il piede sotto l’acceleratore. Era come avere un ostacolo sotto il pedale e proprio come succede a Sordi ne La più bella serata della mia vita di Scola, cazzarola, non so’ riuscito a controlla’ più niente. Ho travolto una panchina barocca che stava lì da qualche annetto. Stavamo girando. Ventimila euro di danni. Una vergogna che non le so di’».
Caligari, Sollima, Verdone, Infascelli. Senza di loro non avremmo avuto il Marco Giallini attore?
«Senza false modestie, quello che sono lo devo soprattutto a me e alla tigna che ci ho messo. Mi sono fatto il mazzo, caricavo le bibite sul furgoncino, partivo all’alba per le consegne e alla fine del giro, stravolto, andavo a scuola di recitazione. Poi certo, ci sono persone che mi hanno dato una grandissima mano. Una è Graziella Bonacchi. Purtroppo non c’è più. Sono stati decisivi anche Carlo Verdone e Stefano Sollima. Due persone straordinarie, come diciamo a Roma “da paura”».
Altri mentori?
«Alex Infascelli, Claudio Caligari e Paolo Genovese. Nel suo prossimo film, Perfetti Sconosciuti, io, Smutniak, Battiston, Mastandrea, Rohrwacher, Anna Foglietta ed Edoardo Leo, raccontiamo l’uovo di Colombo».
Ce lo spiega?
«C’è una cena. Quasi per gioco si mettono al centro del tavolo i telefonini di tutti i presenti e si decide di leggere pubblicamente qualunque messaggio arrivi via sms o dai social network sui cellulari degli ospiti senza omissioni né furberie. Tutti hanno qualcosa da nascondere e la situazione degenera. Niente sarà come prima e i rapporti non saranno più gli stessi. È una commedia feroce, cattiva, con un finale che non lascia spazio ai buoni sentimenti».
Perfetti sconosciuti uscirà presto?
«Non a Natale perché ci tirano la roba, a febbraio però sì. E ho il sospetto che sia un grande film».
Ci diceva di Claudio Caligari. Valerio Mastandrea insegue il sogno di una candidatura agli Oscar per Non essere cattivo.
«Io che nella vita sono tutto meno che un codardo, con Claudio, in un certo senso, lo sono stato. Sapevo che non stava bene per niente e nonostante il desiderio di stargli accanto, dopo un mio periodo di profonda sofferenza, sul set non mi sono mai presentato. Avrei potuto e dovuto dare una mano, ma c’è una parte di me che del dolore degli altri, anche contro la mia volontà, ha iniziato ad avere paura».
Si è mai chiesto che lavoro faccia veramente?
«Molte volte. Una risposta me la sono anche data».
E che lavoro fa Marco Giallini?
«Il padre. Un mestiere non semplice che faccio perché devo e perché mi piace. Ho lavato il culo ai miei figli fino all’altroieri. E l’ho fatta con grande felicità».
Con Rocco e Diego, i suoi figli, ha un buon rapporto?
«Ottimo. Ogni tanto discutiamo, poi facciamo pace. Abbiamo più di qualche interesse in comune. Il calcio, la musica, la Roma. Anche se abbiamo litigato, quando parte sgommando quel genio di Gervinho s’abbracciamo. L’altra sera a Barcellona non s’è abbracciato nessuno».
Lei è un grande esperto di musica.
Pensi che avevo i biglietti per la data romana degli Eagles of Death Metal, che altro non sono che una costola dei Queen of the Stone Age. Un gruppo che vidi dal vivo con Mastandrea. Uno dei concerti più belli a cui abbia assistito in tanti anni di zingarate».
Tanti anni di concerti?
«Quando vidi i Clash al Vigorelli di Milano nel 1981, mi sembrò di aver visto la Madonna».
Lì Mastandrea non c’era.
Valerio è un fratello a cui voglio veramente bene, uno che mi ha dato una mano quando a me non credeva nessuno, uno generoso. Gli perdono tutto».
Cosa gli deve perdonare?
«Un certo atteggiamento da attore di Testaccio. (Ride). Valerio è un amico, come Favino. Quando arrancavamo alla ricerca di una comparsata e di un ingaggio nell’agenzia che io e Pierfrancesco avevamo in comune, me lo guardavo, me lo studiavo quasi. Parlava cinque lingue, era bravissimo, aveva tutti i registri. Glielo dicevo sempre: “A Favì, se nun ce la fai te dove annà tutti a morì ammazzati”».
Ce l’ha fatta.
«Cazzarola se ce l’ha fatta».
Lei è contento di sé?
«Molto. Vorrei fare qualcosa di più, ma in Italia non sempre ti offrono il ruolo giusto, quello che coincide con la tua idea di cinema».
Rimarrebbe comunque la musica.
«E sarebbe poco? Ho dischi in abbondanza. Posso star bene per anni. Stooges, Who, Clash, Captain Beyond, Charlatans, gli AC/DC. “Gli AC/DC hanno fatto una sola canzone” dicono gli scettici. Se vabbè».
Se vabbè?
«Provateci voi a scrivere una sola canzone così, rispondo io».